Julius Evola. L’uomo e ... Lettura di 15 minuti

Cavalcare la tigre

«Chi cavalca la tigre non può scendere».

Il ristagno della situazione interna italiana alla fine degli anni ‘50 spinge Evola verso soluzioni personali del problema della vita. Il suo interesse si sposta verso quei sentieri individuali lungo i quali si può attraversare incolumi la foresta pietrificata del mondo moderno. Cavalcare la tigre non sta in contraddizione con Gli uomini e le rovine o altri libri precedenti. La concezione di Evola è sempre la stessa: solo la prospettiva cambia. Questa prospettiva non è più sociale, ma individuale, non ottimistica, ma pessimistica.

Cavalcare la tigre è il breviario di chi deve vivere in un mondo che non è suo, senza farsi travolgere, forte della sua invulnerabilità. In questo senso, esso ci ricorda i manuali di un Seneca, di un Epitetto, di un Marco Aurelio, sorti in uno stesso clima di decadenza e improntati da uno stesso spirito di stoica incrollabilità. Lo sfondo di Cavalcare la tigre è lo sfacelo del mondo moderno, desolante nelle forme conclusive della sua crisi, ma non privo di possibilità in quanto «negazione di una negazione». Non occorre esser seguaci di questa o quella particolar visione della storia per convenire che l’era contemporanea presenta i caratteri di una epoca in dissoluzione.

Irruzione di masse, città informi che si dilatano, instabilità sociale, demonìa dell’oro e del sesso, miti effimeri e febbrili, gusto del gigantesco e certo sentimento del provvisorio: questi i segni distintivi d’un tempo in cui l’uomo, più che vivere, è vissuto da processi collettivi ed istintivi che egli non controlla che in minima parte. Il mondo moderno è una tigre scatenata ma, «chi cavalca la tigre non può scendere», ammonisce un proverbio orientale. Tanto vale restare in groppa e aspettare che la tigre, esausta, crolli a terra, poiché le forze elementari ridestate alla fine dei tempi «per essere prive di connessione con qualsiasi principio superiore, hanno, in fondo, la catena misurata».

Intanto, posto che taluni contenuti sociali e sentimentali saranno inesorabilmente bruciati nella fase d’autoconsumazione del mondo moderno, sarà bene prender per tempo le proprie distanze distaccandosi da quel che è caduco e attestandosi su ciò che invece, per sua natura, non può esser distrutto. Poiché, in tempo di crolli, chi meno s’appoggia meno cade. Che il cristianesimo sopravviva come organizzazione e come morale sociale, è un fatto. È un fatto altrettanto certo che il divino, il senso religioso della vita non dice più nulla a una società lanciata alla conquista di beni materiali. «Dio è morto» annunziò Nietzsche già novant’anni fa. Se alla fine del secolo questo sentimento della sconsacrazione del mondo era il dramma di pochi chiaroveggenti (Nietzsche, Dostoevskij, Rimbaud), dopo la prima guerra mondiale, e ancor più dopo la seconda, il senso dell’assurdità della vita ha guadagnato vaste masse. Fenomeni come quelli dei teddy-boys, dei beatniks, degli halbstarker, degli esistenzialisti, degli angry-men sono, per Evola, chiaramente indicativi di un senso di vuoto che si diffonde per la società. I marxisti pretendono di colmare questo vuoto con quello che Evola chiama «il mito economico-sociale». Ma, anche al di là della bassa stupidità di questo mito, resta il fatto incontestabile che proprio là dove le masse han raggiunto il maggiore benessere ci si trova di fronte al dilagare del nulla.

Nel «mondo dove Dio è morto», dove una regola dell’agire consacrata dalla tradizione o dall’abitudine è perduta, l’uomo trova la sua miseria, il suo pericolo e la sua grandezza nel trarre una legge da sé stesso. Questo situazione trovò un’eco drammatica in Nietzsche che, in tempi in cui un ateismo superficiale festeggiava la rescissione dei vincoli religiosi, protestò che non bastava esser liberi da qualcosa, ma occorreva esserlo per qualcosa. Con ciò si poneva l’esigenza di ritrovare un centro dell’essere di là dai concetti di Dio, di Bene, e di Male propri delle religioni di origine semitica. Ma Nietzsche trovò il suo limite in una mentalità sostanzialmente naturalistica. Egli, come Evola pone in luce nel corso di una critica penetrante, finisce col darci un bene e un male naturalistici, che sono rispettivamente un più di vita (i forti) e un meno di vita (i deboli), presupponendo la vita come alcunchè di continuamente ascendente, mentre l’osservazione quotidiana troppo spesso ce la mostra bramosa soltanto di conservarsi alla meno peggio. In realtà, non si può cercare nella vita, che non ha senso alcuno all’infuori della conservazione di sé medesima, un criterio di moralità, di libertà, di valore.

Ma solo il teista crederà che questo valore sia ritrovabile soltanto nel dogma, nella fede. Esiste una radice di libertà metafisica che è innata, esiste nell’uomo qualcosa d’increato, di incondizionato, d’indistruttibile. È questa dimensione dell’essere che occorre evocare imponendosi una disciplina che ha la sua giustificazione in sé stessa e il cui fine è la rimozione di quel che è spontaneo, accidentale e il risveglio di quel che è libero, necessario. Bisogna imparare ad agire per l’azione in sé stessa, senza guardare a vantaggi. Bisogna fare di quest’azione un piccolo cosmo, perfetto in sé stesso, libero da speranza e da timore. Bisogna imparare a vivere nella dimensione atemporale della vita, come se ogni giorno fosse l’ultimo. Bisogna esser pronti «ad essere eventualmente distrutti senza per questo essere vulnerati» per cogliere da questa disposizione sacrificale il senso di una super-vita.

Chi abbia raggiunto questo livello — e non è da tutti — potrà anche gettarsi nei gorghi più vorticosi della modernità «cavalcando la tigre»: «sicuro di sé per aver come centro essenziale della persona l’essere, e non la vita, può andare incontro a tutto, può abbandonarsi a tutto e a tutto aprirsi senza perdersi: accettare dunque ogni esperienza, ora non più per provarsi e conoscersi ma per sviluppare tutte le proprie possibilità, in vista delle trasformazioni di sé che possono prodursi, dei contenuti nuovi che possono per tal via offrirsi e rivelarsi. ... la capacità di aprirsi senza perdersi, proprio in un periodo di dissoluzione, è di particolare importanza. È la via per sovrastare ogni eventuale trasformazione, comprese le più pericolose: il limite ultimo potendo essere indicato in quel passo delle Upanishad dove si parla di colui contro cui la morte non può nulla, perché essa è divenuta parte del suo essere. Vi è dunque il coesistere di un distacco con l’esperienza pienamente vissuta, il ricorrente connubio fra il calmo ‘essere’ e la sostanza della vita. Il risultato di questo connubio è, essenzialmente, un genere tutto speciale, lucido, potremmo dire quasi intellettualizzato e magnetico di ebrezza, completamente opposto a quello che deriva dall’apertura estatica al mondo delle forze elementari, dell’istinto e della ‘natura’. In questa specialissima ebrezza sottilizzata e storbidata devesi vedere l’alimento vitale necessario ad una esistenza allo stato libero in un mondo caotico abbandonato a sé stesso».

Chi sia riuscito ad attivare in sé questa diversa corrente del vivere comprenderà la trascendenza non come un dogma, ma come un’esperienza.

Delineati i tratti de «l’uomo la cui libertà non significa rovina» Evola, dopo una magistrale critica dell’esistenzialismo, considera i processi di dissoluzione del dominio della personalità. Anche qui, ciò che è minacciato è l’individualismo di tipo borghese, libertà, censo, cultura, con quel che di positivo, ma anche di fragile, poteva essergli proprio. Può darsi che i processi di livellamento in atto frantumino molte «personalità», molte «anime belle», molti cuori in ammirazione di sé stessi, e, certo, quel che ne risulterà sarà un opaco squallore di masse. Ma anche qui la distruzione minaccia alcunché di accidentale, di periferico: il nucleo dell’Io, per chi sappia ritirarsi in esso, resta libero. Il problema è concepire un anti-individualismo positivo e di restaurare in sé l’immagine «tipica», formatrice, che sovrasta l’individuo con le sue piccolezze. Non si tratta di andare al di sotto, ma al di sopra della personalità, verso ciò che è «tipico», eterno.

L’uomo superiore che Evola descrive non s’imbranca, non si appiattisce, ma si tiene pronto a disfarsi di molte remore come chi si arruola in un esercito rinuncia non solo agli abiti e ai bagagli ma a molte abitudini e a molte frivolezze dell’«io». «Impersonalità attiva»: questa è la formula con cui «si cavalca la tigre» quando essa si avventa a sbranare ogni intimità personale. Non «impersonalità passiva», subìta, il «cervello all’ammasso» del gregge comunista o la promiscuità del branco di scimmie beatnik. Avere una personalità, ma esser pronti a passarci sopra, pronti a disfarsi di molti sentimenti come di uno zaino pesante che non si può portare sotto il fuoco nemico. In questo senso l’insegnamento di Evola è anche una filosofia della guerra totale, questa tipica manifestazione dell’avanzata modernità, la necessaria controparte della sua crescita mostruosa.

Guardando il problema in questa prospettiva, cade il pathos borghese dell’«anima», dell’«individuo». Se il grazioso, il sentimentale, lo psicologico sbiadiscono, la realtà guadagna in evidenza e, come in tempi primordiali, il mondo sta «freddo e chiaro, calmo e stabile». Si desta un nuovo senso della natura concepita come ciò che è fermo ed oggettivo, in un’evidenza quasi metafisica. L’oleografico, il pittoresco non parlan più all’anima capace di intuire una nuova dimensione del mondo:

«Se per la generazione borghese, la natura era una specie di intermezzo idillico domenicale della vita cittadina, e se per la generazione più recente essa è la scena dove prorompe la sua ottusa, invadente e contaminatrice bestialità, per il nostro uomo differenziato essa è una scuola dell’oggettivo e del lontano, è qualcosa di fondamentale nel senso che egli ha dell’esistenza e va a presentare un carattere totale. Appare chiaro a questa stregua ciò che si è detto più su: si può parlare di una natura che nella sua elementarità è il grande mondo dove i panorami di pietra e di acciaio delle metropoli, le vie rettilinee senza fine, i complessi funzionali di quartieri industriali stanno sullo stesso piano, ad esempio, delle foreste immense e solitarie nel segno di una fondamentale austerità, oggettività e non personalità… non vi saranno paesaggi più belli di altri, ma paesaggi più lontani, più sconfinati, più calmi, più freddi, più duri, più primordiali di altri: il linguaggio delle cose, del mondo, non è colto fra alberi, ruscelli, bei giardini, dinanzi a tramonti oleografici e a romantici chiari di luna, ma piuttosto in deserti, rocce, steppe, ghiacciai, neri fiords nordici, soli implacabili dei tropici, grandi correnti — appunto tutto ciò che è primordiali e inaccessibile».

Chiarita la linea sulla quale ci si può lasciare alle spalle la dissoluzione dell’individuo, Evola affronta il problema della dissoluzione della scienza e dell’arte. La scienza, che cent’anni fa i positivisti vedevano erede della filosofia, è passata attraverso radicali ripensamenti (geometrie non euclidee, teoria dei quanta etc.), sì che ci si presenta come un cantiere di ipotesi di lavoro praticamente efficaci ma impotenti a darci qualunque verità generale. C’è, in fondo alla scienza, un nichilismo assoluto perché, se essa pone a disposizione dell’uomo forze materiali sempre più ingenti, non per questo è capace di rendere l’uomo più forte, o più sicuro di se, mentre le nuovissime ipotesi escludono che la scienza possa mai dirci qualcosa circa le verità ultime della vita e della morte. Anche se qualcuno ha potuto farsi illusioni, rimane l’inettitudine fondamentale della scienza a darci uno visione del mondo. Poichè, secondo quanto dichiara uno dei massimi fisici del nostro tempo, Heisenberg, «l’oggetto della ricerca non è più l’oggetto in sé, ma la natura in funzione dei problemi che l’uomo si pone». «Il sistema della scienza — scrive Evola alla fine della sua acuta disamina del mito scientista — è una rete che si stringe sempre più intorno a un quid che, in sé, resta incomprensibile, al solo fine di poterlo assoggettare a fini pratici».

Accanto alla dissoluzione del conoscere, che tocca pochi interessati, sta la dissoluzione dell’arte che investe clamorosamente i gusti del grosso pubblico. La posizione di Evola, anche per la sua raffinata conoscenza dell’arte moderna, non può essere quella del filisteo che si aggrappa a certe forme terminali del mondo borghese. Che il romanzo si disintegri, che l’intimismo finisca nel sudiciume, che la psicologia sbocchi nella morbosità, è logico, così come è logico che la democrazia finisca nel comunismo. Il mondo tradizionale conobbe l’arte come espressione oggettiva di una visione del mondo; come tempio, cattedrale, come scultura o affresco integrato in un complesso più grande. Conobbe l’arte come manifestazione della vita spirituale organizzata, non l’arte scissa, privata, intimistica, il museo, l’accademia, il salotto letterario. Di fronte alle forme estreme, polemiche in cui l’arte borghese si dissolve, di fronte alla volgarità e al cretinismo avanzante, non sarà il caso di turbarsi più del necessario. Il tipo differenziato di cui Evola tratta passa incolume tra la dissoluzione della scienza e quella dell’arte perché né all’arte né alla scienza chiede le sue certezze.

Cavalcare la tigre si chiude con un capitolo sulla morte. In effetti, la morte è una possibilità da tener sempre presente in un’epoca che si è aperta e si chiuderà in mezzo a caotici sconvolgimenti. Ed è — come già nello stoicismo — la verifica della propria libertà. La prospettiva della morte non può aver nulla di drammatico per chi, di là dall’idea di un Dio personale e dall’idea correlativa dell’ateismo, sa che l’essere dell’uomo non comincia con la nascita e non finisce con la morte: «in generale, ma in particola modo in un’epoca caotica e in dissoluzione come l’attuale, può riuscire difficile cogliere il senso dell’apparire dell’essere che si è, nelle vesti di una persona così e così determinata, che vive in un dato tempo e in un dato luogo, che attraversa queste esperienze di cui questa sarà la fine: è come la sensazione confusa della regione che si percorre nel viaggio notturno, dove solo saltuariamente brevi luci disperse rendono visibili alcuni tratti del paesaggio attraversato. Tuttavia deve mantenersi il sentimento, o il presentimento di chi, salito su di un treno, sa che ne scenderà, e che quando scenderà vedrà anche tutto il cammino percorso; e andrà oltre».

Nel problema della morte è contenuto il problema del suicidio che, a suo tempo, nel quadro di una religiosità romana, virile, non cristiana, come la stoica, fu considerato lecito. Anche qui Evola riafferma la libertà dell’uomo liberato dalle passioni su tutti gli atti della propria vita, compresa la morte. Ma, mentre riafferma questa libertà, avverte la contraddizione insita nell’atto di chi si toglie la vita. Infatti, poiché l’io e l’essere sono la stessa cosa, il nascere, l’esser qui, è sempre, in un certo modo, atto di libera scelta dell’Io. Il punto è proprio questo: risalire a quell’atto invisibile della nostra volontà e non inciampare nei suoi effetti come in alcunchè di estraneo, di casuale, di irrazionale:

«... l’avvertire in sé una qualsiasi impazienza, una qualsiasi insofferenza o anche un qualsiasi tedio non attesterebbe forse la presenza di un residuo troppo umano, di qualcosa di non ancora risolto nel senso dell’eternità o, per lo meno, delle grandi distanze non-terrene e non temporali? E se così fosse, non si sarebbe forse tenuti, di fronte a sé stessi, a non agire? ... Elevarsi di là da ciò che può essere comprensibile alla luce della sola ragione umana e raggiungere un alto livello interiore e una invulnerabilità altrimenti difficile a conseguire, sono forse delle possibilità che, attraverso reazioni adeguate, si offrono proprio nei casi in cui il viaggio nelle ore di notte non lascia scorgere quasi nulla del paesaggio che si attraversa, in cui sembrerebbe essere vera la teoria della Geworfenheit, di un assurdo ‘esser gettati’ dentro il mondo e dentro il tempo, oltreché in un clima in cui la stessa esistenza fisica non può non presentare una crescente insicurezza. Se si volesse permettere alla mente di soffermarsi su di una ipotesi ardita il che potrebbe anche essere un atto di fede in senso superiore — una volta respinta l’idea della Geworfenheit, una volta concepito che il vivere qui, ora, nel mondo, ha un senso per essere sempre l’effetto di una scelta e di una volontà, si potrebbe persino ritenere che proprio la realizzazione delle possibilità dianzi accennate — maggiormente coperte e meno concepibili in situazioni diverse e più desiderabili dal punto di vista soltanto umano, dal punto di vista della ‘persona’ — sia la ragione ultima e il significato di quella scelta da parte di un ‘essere’ che per tal via ha voluto misurare sé con una difficile misura: proprio nel vivere in un mondo opposto a quello conforme alla sua natura, cioè opposto al mondo della Tradizione».

È questa l’idea ricorrente in Evola, quella che emerge dai primi libri filosofici, e che, significativamente, ritorna in queste ultime pagine dell’ultimo libro importante: l’esistenza è il troncone di una spada la cui altra metà è l’Essere e che si può recuperare solo in quanto si accetti l’Essere come l’altra metà di noi stessi. È il nodo centrale, quello che dà o toglie senso al tutto. Non un dubbio che si risolve a lume di logica, ma un nodo che si scioglie con un «atto di fede superiore», come col taglio di una lama. Chi possa questo, rinverrà il troncone perduto della spada saldando immanenza e trascendenza. Allora la contrada intraveduta tra le luci della notte si risolverà in chiarore solare e sarà chiaro il senso del viaggio. «We westerners of this complex age, monks in our body’s cells», scriveva Lawrence d’Arabia che fu, oltre che un soldato, un uomo consapevole della difficoltà dei tempi.

Certo, poco monacale potrà apparire ad un occhio superficiale l’uomo differenziato di Evola, pronto a vivere nel cuore stesso del mondo moderno e a servirsi dei suoi veleni — droga, sesso, anarchia — come contravveleni. Ma dovrà saper vivere sulla linea di una vigilanza estrema che è monacale e militare, dovrà continuamente rovesciare le valenze negative del mondo moderno facendo dei suoi rapporti con esso un puro esercizio di forza. Dovrà agire senza farsi coinvolgere, forte di quella nudità interiore in cui Meister Eckart vedeva la caratteristica dell’uomo di Dio sicché «la porta sbatta, ma il cardine resti fermo».


Adriano Romualdi, Julius Evola. L’uomo e l’opera (1968). Cavalcare la tigre.

Simone Sala