Al di là del bene e del... Lettura di 45 minuti

Cosa è aristocratico

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Ogni elevazione del tipo «uomo» è stata, fino a oggi, opera di una società aristocratica – e così continuerà sempre a essere: di una società, cioè, che crede in una lunga scala gerarchica e in una differenziazione di valore tra uomo e uomo, e che in un certo senso ha bisogno della schiavitù. Senza il pathos della distanza, così come nasce dalla incarnata diversità delle classi, dalla costante ampiezza e altezza di sguardo con cui la casta dominante considera sudditi e strumenti, nonché dal suo altrettanto costante esercizio nell’obbedire e nel comandare, nel tenere in basso e a distanza, senza questo pathos non potrebbe neppure nascere quel desiderio di un sempre nuovo accrescersi della distanza all’interno dell’anima stessa, l’elaborazione di condizioni sempre più elevate, più rare, più lontane, più cariche di tensione, più vaste, insomma l’innalzamento appunto del tipo «uomo», l’assiduo «autosuperamento dell’uomo», per prendere una formola morale in un senso sovramorale. Indubbiamente, per quanto riguarda la storia delle origini di una società aristocratica (il presupposto, dunque, di quell’innalzamento del tipo «uomo»), non ci si può abbandonare ad alcuna illusione umanitaria: la verità è dura. Diciamocelo francamente, come sino a oggi ogni civiltà superiore è cominciata sulla terra!

Uomini con un’indole ancora naturale, barbari in ogni terribile significato della parola, uomini da preda ancora in possesso di non infrante energie volitive e bramosie di potenza, si gettarono su razze più deboli, più ben costumate, più pacifiche, forse dedite al commercio o alla pastorizia, o su antiche civiltà marcescenti, in cui appunto l’ultima forza vitale fiammeggiava in rutilanti fuochi artificiali d’intelligenza e di pervertimento. La classe aristocratica è stata sempre, in principio, la casta barbarica: la sua preponderanza non stava in primo luogo nella forza fisica, ma in quella psichica, – erano gli uomini più completi (la qual cosa, a ogni grado, significa anche lo stesso che «bestia più completa»).


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Corruzione, come espressione del fatto che v’è all’interno degli istinti la minaccia dell’anarchia e che sono scosse le fondamenta degli affetti, cioè della «vita»: corruzione è qualcosa di radicalmente diverso a seconda della formazione vitale in cui si manifesta. Se, per esempio, un’aristocrazia, come quella francese all’inizio della rivoluzione, getta via con un sublime disgusto i suoi privilegi e sacrifica se stessa alla sfrenatezza del proprio senso morale, questa è corruzione – fu questo, propriamente, soltanto l’atto conclusivo di quella corruzione perdurante da secoli, in forza della quale essa aveva poco per volta abbandonato le sue prerogative di dominio e si era degradata a funzione della regalità (e infine anche a ornamento e a elemento da parata). L’essenziale, invece, di una buona e sana aristocrazia è che essa non si avverta come funzione (sia della regalità che della comunità), bensì come senso e come superema giustificazione di queste – che accolga perciò con tranquilla coscienza il sacrificio di innumerevoli esseri umani che per amor suo devono essere spinti in basso e diminuiti fino a divenire uomini incompleti, schiavi, strumenti. La sua convinzione fondamentale deve essere appunto questa: che la società non può esistere per amore della società, bensì soltanto come infrastruttura e impalcatura, su cui una specie prescelta di individui è in grado di innalzarsi al suo compito superiore e soprattutto a un essere superiore: a somiglianza di quelle piante rampicanti giavanesi, avide di sole – sono chiamate Sipo Matador – che avvinghiano tenacemente con le loro braccia una quercia così a lungo e ripetutamente, che riescono infine a dischiudere in aperta luce, alta su di essa, anche se su di essa appoggiata, la loro corolla e a mettere così in mostra la loro felicità.


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Trattenerci reciprocamente dall’offesa, dalla violenza, dallo sfruttamento, stabilire un’eguaglianza tra la propria volontà e quella dell’altro: tutto questo può, in un certo qual senso grossolano, divenire una buona costumanza tra individui, ove ne siano date le condizioni (vale a dire la loro effettiva somiglianza in quantità di forza e in misure di valore, nonché la loro mutua interdipendenza all’interno di un unico corpo). Ma appena questo principio volesse guadagnare ulteriormente terreno, addirittura, se possibile, come principio basilare della società, si mostrerebbe immediatamente per quello che è: una volontà di negazione della vita, un principio di dissoluzione e di decadenza.

Su questo punto occorre rivolgere radicalmente il pensiero al fondamento e guardarsi da ogni debolezza sentimentale: la vita è essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione di tutto quanto é estraneo e più debole, oppressione, durezza, imposizione di forme proprie, un incorporare o per lo meno, nel più temperato dei casi, uno sfruttare – ma a che scopo si dovrebbe sempre usare proprio queste parole, sulle quali da tempo immemorabile si è impressa un’intenzione denigratoria? Anche quel corpo all’interno del quale, come è stato precedentemente ammesso, i singoli si trattano da eguali – ciò accade in ogni sana aristocrazia – deve anch’esso, ove sia un corpo vivo e non moribondo, fare verso gli altri corpi tutto ciò da cui vicendevolmente si astengono gli individui in esso compresi: dovrà essere la volontà di potenza in carne e ossa, sarà volontà di crescere, di estendersi, di attirare a sé, di acquistare preponderanza – non trovando in una qualche moralità o immoralità il suo punto di partenza, ma per il fatto stesso che esso vive, e perché vita è precisamente volontà di potenza.

In nessun punto, tuttavia, la coscienza comune degli Europei è più riluttante all’ammaestramento di quanto lo sia a questo proposito; oggi si vaneggia in ogni dove, perfino sotto scientifici travestimenti, di condizioni di là da venire della società, da cui dovrà scomparire il suo «carattere di sfruttamento» – ciò suona alle mie orecchie come se si promettesse di inventare una vita che si astenesse da ogni funzione organica. Lo «sfruttamento» non compete a una società guasta oppure imperfetta e primitiva: esso concerne l’essenza del vivente, in quanto fondamentale funzione organica, è una conseguenza, di quella caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita. – Ammesso che questa, come teoria, sia una novità – come realtà è il fatto originario di tutta la storia: si sia fino a questo punto sinceri verso se stessi!


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Vagabondando tra le molte morali, più raffinate e più rozze, che hanno dominato fino a oggi o dominano ancora sulla terra, ho rinvenuto certi tratti caratteristici, periodicamente ricorrenti e collegati tra loro: cosicché mi si sono finalmente rivelati due tipi fondamentali e ne è balzata fuori una radicale differenza. Esiste una morale dei signori e una morale degli schiavi – mi affretto ad aggiungere che in tutte le civiltà superiori e più ibride risultano evidenti anche tentativi di mediazione tra queste due morali e, ancor più frequentemente, la confusione dell’una nell’altra, nonché un fraintendimento reciproco, anzi talora il loro aspro confronto – persino nello stesso uomo, dentro la stessa anima.

Le differenziazioni morali di valore sono sorte o in mezzo a una stirpe dominante, che con un senso di benessere acquistava coscienza della propria distanzione da quella dominata – oppure in mezzo ai dominati, gli schiavi e i subordinati di ogni grado. Nel primo caso, quando sono i dominatori a determinare la nozione di «buono», sono gli stati di elevazione e di fierezza dell’anima che vengono avvertiti come il tratto distintivo e qualificante della gerarchia. L’uomo nobile separa da sé quegli individui nei quali si esprime il contrario di tali stati d’elevazione e di fierezza – egli li disprezza. Si noti subito che in questo primo tipo di morale il contrasto «buono» e «cattivo» ha lo stesso significato di «nobile» e «spregevole» – il contrasto di «buono» e «malvagio» ha un’altra origine. È disprezzato il vile, il pauroso, il meschino, colui che pensa alla sua angusta utilità; similmente lo sfiduciato, col suo sguardo servile, colui che si rende abbietto, la specie canina di uomini che si lascia maltrattare, l’elemosinante adulatore e soprattutto il mentitore – è unaconvinzione basilare di tutti gli aristocratici che il popolino sia mendace. «Noi uomini sinceri» – così i nobili chiamavano se stessi nell’antica Grecia.

È un fatto palmare che le designazioni morali di valore sono state ovunque primieramente attribuite a uomini e soltanto in via derivata e successiva ad azioni: per cui è un grave errore che gli storici della morale prendano come punto di partenza problemi quali «perché è stata lodata l’azione pietosa?». L’uomo di specie nobile sente se stesso come determinante il valore, non ha bisogno di riscuotere approvazione, il suo giudizio è «quel che è dannoso a me, è dannoso in se stesso», conosce se stesso come quel che unicamente conferisce dignità alle cose, egli è colui che crea valori. Onorano tutto quanto sanno appartenere a sé: una siffatta morale è autoglorificazione. Sta in primo piano il senso della pienezza, della potenza che vuole straripare, la felicità della massima tensione, la coscienza di una ricchezza che vorrebbe donare e largire – anche l’uomo nobile presta soccorso allo sventurato, ma non, o quasi non, per pietà, bensì piuttosto per un impulso generato dalla sovrabbondanza di potenza. L’uomo nobile onora in se stesso il possente, nonché colui che sa parlare e tacere, che esercita con diletto severità e durezza contro se medesimo e nutre venerazione per tutto quanto è severo e duro. «Un duro cuore Wotan mi ha posto nel petto» – si dice in un’antica saga scandinava: in questo modo l’anima di un superbo vichingo ha trovato la sua esatta espressione poetica. Un simile tipo di uomini va appunto superbo di non essere fatto per la pietà: per cui l’eroe della saga aggiunge, in tono d’ammonizione, «chi non ha da giovane un duro cuore, non lo avrà mai». Nobili e prodi che pensano in questo modo sono quanto mai lontani da quella morale che vede precisamente nella pietà o nell’agire altruistico o nel désintéressement l’elemento proprio di ciò che è morale; la fede in se stessi, l’orgoglio di sé, una radicale inimicizia e ironia verso il «disinteresse», sono compresi nella morale aristocratica, esattamente allo stesso modo con cui competono a essa un lieve disprezzo e un senso di riserbo di fronte ai sentimenti di simpatia e al «calore del cuore».

– Sono i potenti quelli che sanno attribuire onore, è questa la loro arte, il loro dominio inventivo. La profonda venerazione per la tarda età e per la tradizione – l’intero diritto riposa su questa doppia venerazione – la fede e l’opinione preconcetta a favore degli antenati e a sfavore dei posteri sono un elemento tipico nella morale dei potenti: e se, all’opposto, gli uomini delle «idee moderne» credono, quasi per istinto, al «progresso» e all’«avvenire» e sono sempre privi di rispetto per l’età vetusta, tutto ciò è già una spia sufficiente della origine non nobile di queste «idee». Ma soprattutto una morale dei dominatori è estranea al gusto dei contemporanei e per essi spiacevole nel rigore del suo principio, che si hanno doveri unicamente verso i propri simili; che nei riguardi degli individui di rango inferiore e di tutti gli estranei sia lecito agire a proprio libito o «come vuole il cuore» e comunque «al di là del bene e del male» –: è sotto quest’ultimo aspetto che possono avere il loro posto la compassione o altre cose del genere. La capacità e l’obbligo di una lunga gratitudine e di una lunga vendetta – le due cose solo entro la sfera dei propri simili – la sottigliezza nella rappresaglia, l’affinamento dell’idea di amicizia, una certa necessità di avere dei nemici (come canale di deflusso, per così dire, per le passioni dell’invidia, della litigiosità, della tracotanza – in fondo per poter essere buoni amici): tutti questi sono caratteri tipici della morale aristocratica, la quale, come ho accennato, non è la morale delle «idee moderne», ed è per questo che oggi risulta difficile sentirla ancora come pure disseppellirla o discoprirla.

– Diversamente stanno le cose per quanto riguarda il secondo tipo di morale, la morale degli schiavi. Posto che gli oppressi, i conculcati, i sofferenti, i non liberi, gli insicuri e stanchi di se stessi, facciano della morale, che cosa sarà l’elemento omogeneo nei loro apprezzamenti di valore? Probabilmente troverà espressione un pessimistico sospetto verso l’intera condizione umana, forse una condanna dell’uomo unitamente alla sua condizione. Lo schiavo non vede di buon occhio le virtù dei potenti: è scettico e diffidente, ha la raffinatezza della diffidenza per tutto quanto di «buono» venga tenuto in onore in mezzo a costoro –, vorrebbe persuadersi che tra quelli la stessa felicità non è genuina. All’opposto vengono messe in evidenza e inondate di luce le qualità che servono ad alleviare l’esistenza ai sofferenti: sono in questo caso la pietà, la mano compiacente e soccorrevole, il calore del cuore, la pazienza, l’operosità, l’umiltà, la gentilezza a esser poste in onore – giacché sono queste, ora, le qualità più utili e quasi gli unici mezzi per sopportare il peso dell’esistenza. La morale degli schiavi è essenzialmente morale utilitaria.

Ecco il focolare dove è nato quel famoso contrasto tra «buono» e «malvagio» – nell’intimo del male si avverte la potenza e la pericolosità, una certa terribilità, finezza e forza, che soffoca il disprezzo alle radici. Secondo la morale degli schiavi, il «malvagio» suscita dunque timore; secondo la morale dei signori è precisamente il buono a suscitare e a voler suscitare timore, mentre l’uomo «cattivo» viene sentito come spregevole. Il contrasto giunge al suo culmine quando, stando alle implicazioni della morale degli schiavi, anche sui «buoni» di questa morale finisce per cadere un’ombra di questo disprezzo – per quanto lieve e benevolo possa essere –, poiché il buono, nell’ambito del modo di pensare degli schiavi, deve essere in ogni caso l’uomo innocuo: costui è bonario, facilmente ingannabile, un poco stupido forse, un bonhomme. Ovunque la morale degli schiavi abbia il sopravvento, la lingua rivela una tendenza ad avvicinare l’una all’altra le parole «buono» e «stupido».

– Un’ultima differenza basilare: il desiderio di libertà, l’istinto per la felicità e per le finezze del senso di libertà appartengono tanto necessariamente alla morale e alla moralità degli schiavi, quanto l’arte e l’entusiasmo della venerazione, della dedizione, sono il normale indizio di un’aristocratica maniera di pensare e di valutare. – È senz’altro comprensibile da ciò perché l’amore come passione – è la nostra specialità europea – debba essere assolutamente di origine nobile: è noto che la sua scoperta spetta ai poeti-cavalieri provenzali, a quegli splendidi ingegnosi uomini del «gai saber» cui l’Europa deve tante cose e quasi quasi se stessa.


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Una specie sorge, un tipo si rinsalda e si rafforza, nella lunga lotta con condizioni sfavorevoli sostanzialmente uguali. Dalle esperienze degli allevatori è viceversa noto che specie cui venga assegnato un nutrimento sovrabbondante e, in generale, una misura maggiore di protezione e d’assistenza, inclinano subito, in una maniera quanto mai accentuata, alla variazione del tipo e sono ricche di fenomeni inusitati e di mostruosità (nonché di vizi mostruosi).

Si consideri ora una comunità aristocratica, a esempio un’antica polis greca, oppure Venezia, come un’istituzione, volontaria o no, destinata a scopo d'allevamento: vi sono qui uomini che insieme convivono e che hanno in se stessi le loro risorse, che vogliono realizzare la loro specie, per lo più perché devono realizzare se stessi o perché attraversano lo spaventoso pericolo d’essere sterminati. Manca qui quella situazione di favore, quella sovrabbondanza, quella protezione grazie alla quale è avvantaggiata la variazione; la specie ha bisogno di sé come specie, come qualcosa che proprio in virtù della sua durezza, uniformità, semplicità di forme può in generale realizzarsi e rendersi duratura, in una assidua lotta con i vicini o con i soggiogati, passati alla rivolta o alla minaccia di farla. L’esperienza più multiforme le insegna a quali peculiarità in special modo essa debba andar debitrice della sua sopravvivenza, a dispetto degli uomini e degli dèi, debitrice per essere riuscita continuamente vincitrice: a queste peculiarità essa impone il nome di virtù, e soltanto queste virtù alleva e fa crescere. Compie tutto ciò con durezza, anzi essa vuole la durezza; ogni morale aristocratica è impaziente, nell’educazione della gioventù, nel disporre delle donne, nelle costumanze matrimoniali, nel rapporto tra vecchi e giovani, nelle leggi penali (che hanno di mira esclusivamente i tralignanti) – sotto il nome di «giustizia» essa annovera addirittura l’impazienza tra le virtù.

Un tipo con pochi tratti, ma molto accentuati, una specie di uomini severi, guerrieri, saggiamente taciturni, chiusi e riservati (e come tali sensibili, nella forma più raffinata, alle grazie e alle nuances della società) viene in tal guisa fissata al di là della vicissitudine delle generazioni; la continua lotta con condizioni sfavorevoli sempre eguali è, come ho detto, la causa del fissarsi e dell’indurirsi di un tipo. Ma ecco che viene infine a determinarsi talora una situazione fortunata, l’enorme tensione si allenta; non ci sono forse più nemici tra i vicini e i mezzi per la vita, come pure per il godimento della vita, esistono in misura sovrabbondante. Il vincolo, la costrizione, dell’antica disciplina educativa s’è d’un tratto lacerato: essa non si avverte più come necessaria, come condizionante l’esistenza – se volesse ulteriormente sussistere, potrebbe riuscirvi soltanto come una forma di lusso, come un gusto arcaicizzante. La variazione, sia come tralignante deviazione (in qualcosa di superiore, di più raffinato e raro), sia come degenerazione e mostruosità, è comparsa improvvisamente in scena nella sua massima pienezza e magnificenza, il singolo osa essere singolo e campeggiare da solo.

A queste svolte della storia si manifestano l’uno accanto all’altro, e spesso aggrovigliati e intricati insieme, due fatti: da un lato, un crescere e un tendere all’alto, magnifico, multiforme, come in una foresta vergine, una specie di celerità tropicale nella gara della crescita; dall’altro, un immenso precipitare e farsi precipitare in rovina, mercé gli egoismi selvaggiamente rivolti l’un contro l’altro e, per così dire, esplodenti, i quali lottano tra loro «per aver luce e sole» e non sanno più derivare dalla morale esistita fino a quel momento né limite, né freno, né riguardo. Fu questa stessa morale ad accumulare enormemente la forza che ha teso l’arco in un modo così minaccioso – e ora essa è, diventa, «sopravvissuta» – È raggiunto quel punto pericoloso einquietante in cui la vita più grande, più multiforme, più sterminata, vive al di là dell’antica morale, distaccandosi da essa: c’è ora l’«individuo», costretto a una sua propria legislazione, a sue proprie arti e astuzie d’autoconservazione, autoelevazione e autoliberazione. Soltanto fini nuovi, soltanto mezzi nuovi, non più formole comuni, fraintendimento e dispregio alleati tra loro, decadenza, corruzione e le bramosie estreme strette in un nodo spaventevole, il genio della razza traboccante da tutte le cornucopie del bene e del male, una funesta contemporaneità di primavera e autunno, colma di nuove lusinghe e veli, che sono propri del recente pervertimento, ancora inesaurito, ancora inesausto.

Ecco nuovamente il pericolo, il padre della morale, il grande pericolo, questa volta trasferito nell’individuo, nel prossimo e nell’amico, nella strada, nel proprio bambino, nel proprio cuore, in tutto quanto, nel desiderio e nel volere, è più segreto e più nostro: che avranno ora da predicare i filosofi della morale apparsi all’orizzonte in questo tempo? Essi scoprono, questi acuti osservatori e fannulloni, che presto saremo alla fine, che tutto intorno a loro si corrompe e fa corrompere, che niente si mantiene in piedi fino all’indomani, salvo una specie di uomini, gli inguaribilmente mediocri. Solo i mediocri hanno la speranza di continuare, di perpetuarsi – sono essi gli uomini del futuro, i soli a sopravvivere; «siate come loro! divenite mediocri!» dice ormai l’unica morale che ha ancora un senso, che trova ancora ascolto. – Ma è difficile da predicare, questa morale della mediocrità! – anzi essa non può mai confessare quel che è e quel che vuole! deve parlare di misura e dignità, di dovere e amore del prossimo – avrà un bel da fare a dissimulare l’ironia!


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È incancellabile dall’anima di un uomo quello che i suoi antenati hanno amato fare più di qualsiasi altra cosa e nel modo più costante: sia che essi fossero, a esempio, assidui risparmiatori, addetti a una scrivania o a una cassaforte, moderati e borghesi nei loro desideri, moderati persino nelle loro virtù; sia che vivessero abituati mane e sera al comando, propensi a rozzi piaceri e accanto a questi, forse, a doveri e responsabilità ancora più rozzi; sia che avessero finito per sacrificare, a un certo momento, antichi privilegi di nascita e di proprietà allo scopo di vivere interamente per la loro fede – per il loro «Dio» –, essendo individui dalla coscienza implacabile e delicata, che arrossisce di ogni accomodamento.

È del tutto impossibile che un uomo non porti incarnate le qualità e le predilezioni dei suoi genitori e dei suoi avi: checché possa dire in contrario l’apparenza. È questo il problema della razza. Posto che si sappia qualcosa intorno ai genitori, è lecita un’illazione riguardo al figlio: certa ripugnante incontinenza, certa meschina invidia, una grossolana maniera di darsi ragione – e sono tutte e tre queste qualità ad aver costituito, in ogni tempo, il caratteristico tipo plebeo –, devono trapassare nel figlio così sicuramente come il sangue guasto; e con l’aiuto della migliore educazione e cultura si arriverà appunto soltanto a creare illusioni sul conto di una siffatta ereditarietà. – Che cos’altro vogliono oggidì educazione e cultura?

Nella nostra epoca molto popolare, intendo dire plebea, «educazione» e «cultura» devono essere essenzialmente l’arte di creare illusioni sull’origine – di allontanare con illusioni dalla propria origine la plebaglia ereditaria nella carne e nell’anima. Un educatore che oggi predicasse veracità soprattutto e gridasse continuamente ai suoi discepoli: «Siate veri! mostratevi come siete!» – persino un siffatto asino virtuoso e candido imparerebbe dopo qualche tempo a dar piglio alla famosa furca oraziana, al fine di naturam expellere: con quale risultato? La «plebe» usque recurret.


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A rischio di dispiacere a orecchie innocenti, questo è per me un fatto: l’egoismo è compreso nell’essenza dell’anima aristocratica, intendo dire quella fede irremovibile che a esseri «quali noi siamo» altri esseri debbano per natura restare sottomessi e sacrificare se medesimi. L’anima aristocratica accoglie questo dato di fatto del proprio egoismo senza alcun interrogativo e senza peraltro avvertirvi un senso di durezza, di costrizione, d’arbitrio, ma piuttosto come un qualcosa che può avere il suo fondamento nella legge originaria delle cose: – se cercasse di dare un nome a ciò, direbbe che «è la giustizia stessa». In circostanze che sul principio la fanno esitare, riconosce in cuor suo che esistono esseri i quali hanno i suoi medesimi diritti; ma appena codesta questione del rango le è chiara, si muove tra questi suoi uguali, dotati di uguali diritti, con la stessa sicurezza di pudore e di delicato rispetto che le è propria nei suoi rapporti con se stessa – coerentemente a un’innata meccanica celeste che tutti gli astri conoscono. È una testimonianza ulteriore del suo egoismo, questa finezza e questa autolimitazione nel commercio coi suoi simili – ogni astro ha un siffatto egoismo –: onora se stessa in quelli e nei diritti che concede a costoro, non dubita che lo scambio di onori e di diritti, in quanto essenza di ogni rapporto, rientri egualmente nello stato naturale delle cose. L’anima aristocratica dà allo stesso modo con cui prende, sulla base dell’istinto appassionato e sensibile del contraccambio che è insito nel suo fondo. Inter pares, il concetto di «grazia» non ha senso e gradevole odore; può anche darsi che esista una maniera sublime di rassegnarsi, per così dire, a doni inviati dall’alto e di abbeverarsene quasi fossero stille d’acqua per un assetato: ma per quest’arte e atteggiamento l’anima aristocratica non ha alcuna abilità. Su questo punto le è di impedimento il suo egoismo: in genere non ama guardare verso «l’alto» – ma davanti a sé, in senso orizzontale e con lentezza, oppure in basso – essa si sa in alto.


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Esiste tra i Cinesi un proverbio, che le madri insegnano anche ai loro bambini: siao-sin, «fa’ piccolo il tuo cuore!». È questa la caratteristica tendenza di fondo delle civiltà in declino: non v’è dubbio per me che un Greco antico riconoscerebbe anche in noi Europei di oggi, prima d’ogni altra cosa, il rimpicciolimento di noi stessi – e già soltanto per questo noi urteremmo il suo gusto.


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Che cos’è infine la volgarità? – Le parole sono notazioni per indicare concetti; ma i concetti sono segni più o meno figurati per indicare sensazioni spesso ritornanti e ritornanti assieme, per gruppi di sensazioni. Non basta ancora, per comprendersi l’un l’altro, che si usino le stesse parole; occorre usare le stesse parole anche per lo stesso genere di esperienze interiori, occorre, infine, avere vicendevolmente in comune la propria esperienza.

Perciò gli individui di un unico popolo si comprendono tra loro meglio di quelli appartenenti a popoli diversi, anche quando costoro si servono dello stesso linguaggio; o piuttosto, quando esseri umani hanno vissuto insieme a lungo in condizioni eguali (di clima, di terreno, di pericolo, di bisogni, di lavoro), nasce da tutto ciò qualcosa che «si comprende», un popolo. In tutte le anime un eguale numero di esperienze spesso ritornanti ha preso il sopravvento su altre esperienze verificantisi più di rado: sulla base di queste ci si comprende rapidamente e sempre più rapidamente – la storia del linguaggio è la storia di un processo d’abbreviazione -; sulla base di questa rapida comprensione ci si lega strettamente, sempre più strettamente.

Quanto più grande è la condizione di pericolo, tanto più grande è il bisogno di accordarsi facilmente e rapidamente su quel che è necessario; non fraintendersi nel pericolo è ciò di cui gli uomini non possono assolutamente fare a meno per i loro rapporti. Si fa questa prova anche in ogni amicizia e relazione amorosa: nulla di tutto questo ha durata, appena si scopre che uno dei due, pur dicendo le stesse parole, sente, pensa, sospetta, desidera, teme in modo diverso dall’altro. (La paura dell’«eterno fraintendimento»: è questo quel benevolo genio che tanto spesso trattiene persone di sesso diverso da unioni troppo affrettate, a cui consigliano sensi e cuore – e non già un qualsivoglia schopenhaueriano «genio della specie» – !). Quel gruppo di sentimenti che all’interno dell’anima è più rapido nel destarsi, nel prendere la parola, nel dare ordini, decide sull’intera gerarchia dei suoi valori e finisce per determinare la sua tavola di beni. Le valutazioni di un uomo tradiscono in parte la struttura della sua anima e denotano in che cosa essa ravvisa le sue condizioni vitali, le sue peculiari necessità.

Posto adunque che le necessità abbiano da tempo immemorabile avvicinato tra loro solo uomini che potevano indicare con segni eguali eguali bisogni, eguali esperienze, ne risulta, in totale, che la facile comunicabilità delle necessità, vale a dire, in definitiva, l’esperienza di eventi interiori esclusivamente di livello medio e comuni, deve essere stata la più violenta tra tutte le forze che hanno tenuto in loro balìa gli uomini sino a oggi.

Gli uomini più simili e più ordinari sono stati e sono sempre in vantaggio, quelli più eletti, più raffinati, più singolari, i più difficilmente comprensibili, restano facilmente soli, soggiacciono, nel loro isolamento, alle sciagure e di rado si trapiantano. Occorre appellarci a immense forze contrarie, per potersi opporre a questo naturale, troppo naturale progressus in simile, la prosecuzione dell’uomo nel simile, nel consueto, nel medio, nel gregario – nel volgare!


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Lo spirituale orgoglio e il disgusto di ogni individuo che ha profondamente sofferto – sino a quale profondità possano soffrire gli uomini è un fatto che quasi determina la gerarchia –, la sua abbrividente certezza, della quale è tutto permeato e ha assunto il colore, di sapere, in virtù della propria sofferenza, più di quanto possano sapere i più accorti e i più saggi; certezza di essere stato conosciuto e «di casa», una volta, in molti lontani orribili mondi, di cui «voi tutto ignorate!»... questo spirituale taciturno orgoglio del sofferente, questa superbia dell’eletto della conoscenza, dell’«iniziato», del quasi offerto in sacrificio, trova necessaria ogni forma di travestimento per proteggersi dal contatto di mani invadenti e compassionevoli, e soprattutto da tutti coloro che non sono suoi simili nel dolore. La profonda sofferenza rende nobili; essa divide. Una delle più raffinate forme di travestimento è l’epicureismo e una certa prodezza del gusto, messa da quel momento in evidenza, la quale prende con leggerezza la sofferenza e si mette in guardia contro ogni cosa triste e profonda. Esistono «uomini sereni» che si servono della serenità, perché a cagione di essa vengono fraintesi – costoro vogliono essere fraintesi. Esistono «uomini di scienza» che si servono della scienza, perché dà un aspetto sereno e perché la scientificità porta a concludere che l’uomo è superficiale – essi vogliono sedurre a una falsa conclusione. Esistono spiriti liberi, audaci, che vorrebbero nascondere e negare di essere cuori infranti, superbi, immedicabili; e talvolta la follia stessa è la maschera per un sapere infelice troppo certo. – Donde risulta che si addice a una più raffinata umanità serbar reverenza «di fronte alla maschera» e non esercitare psicologia e curiosità nel punto sbagliato.


271.

Quel che nel modo più profondo divide due uomini è un diverso senso e grado della purezza. A che serve ogni lealtà e vicendevole utilità, a che serve tutta la buona volontà dell’uno per l’altro: la cosa, in definitiva, finisce lì – «l'uno non può sopportare l'odore dell'altro». Il supremo istinto della purezza pone colui che ne è affetto nel più inusitato e pericoloso isolamento, quasi fosse un santo: giacché è appunto questa la santità – la massima spiritualizzazione di questo istinto. Conoscere la pienezza di felicità indescrivibile d'un bagno, una certa smania e sete che sospingono costantemente l’anima ad uscir dalla notte verso il mattino, dalle tenebre della «tribolazione» alla luce, allo splendore e verso tutto ciò che è profondo e delicato – è un’inclinazione che distingue, una virtù aristocratica, ma è una virtù che divide. La pietà del santo è la pietà per il sudiciume di ciò che è umano, troppo umano. Ed esistono gradi e altezze, in cui persino nella pietà egli sente impurità e sudiciume...


276.

In ogni specie di ferita e di perdita l’anima inferiore e più rozza si trova meglio di quella nobile: i pericoli di quest’ultima devono essere più grandi; la sua probabilità di incorrere nella sventura e di andarsene in rovina, data la quantità delle condizioni necessarie alla sua vita, è addirittura enorme. – In una lucertola l’arto, che sia andato perduto, ricresce: non così nell’uomo.


277.

Molto male! Sempre la vecchia storia! Quando uno ha finito di costruirsi la casa, si accorge di avere imparato durante il lavoro, senza rendersene conto, qualcosa che si avrebbe dovuto assolutamente sapere prima di cominciare a costruire. L’eterno funesto «troppo tardi»! – La melanconia di tutto quanto è compiuto!


282.

«Ma che ti è successo?». – «Non lo so» – disse esitando; «forse le Arpie mi sono volate sulla tavola». Accade talvolta, oggigiorno, che un uomo mite, moderato, schivo sia preso da una furia improvvisa, mandi i piatti in frantumi, rovesci la tavola, sbraiti, imperversi, ingiuri tutti – e che alla fine si ritiri in disparte vergognoso, furibondo contro se stesso – dove? e a che scopo? Per morir di fame appartato da tutti? Per restar soffocato dai propri ricordi? Chi ha le brame di un’anima elevata e delicata e solo di rado trova apparecchiata la sua mensa e pronto il suo cibo, incorrerà in ogni tempo in un grande pericolo: ma oggigiorno questo pericolo è straordinario. Sbalestrato in un’epoca rumorosa e plebea, con cui non ama mangiare da una sola scodella, può facilmente morire di fame e di sete, oppure, nel caso che, a onta di ciò, finisca per «allungare le mani» – per una subitanea nausea.

Probabilmente tutti noi abbiamo già seduto a tavole cui non appartenevamo: e proprio i più spirituali tra noi, che sono i più difficili da nutrire, conoscono quella pericolosa dispepsia che ha origine da una cognizione e da una delusione improvvisa riguardo al nostro cibo e ai nostri vicini di tavola – la nausea di fin di tavola.


284.

Vivere con una immensa e superba imperturbabilità; sempre al di là –. Avere e non avere a proprio talento le nostre passioni, il nostro pro e contro, concederci per qualche ora a esse, su di esse assiderci come su cavalli o spesso come su asini – si deve infatti saper utilizzare tanto la loro stupidità quanto il loro fuoco. Conservarci i nostri trecento prosceni; e pure gli occhiali neri: giacché esistono casi in cui nessuno deve guardarci negli occhi e ancor meno nei nostri «fondali». E sceglierci per compagno quel vizio birboncello e gioviale che ha nome cortesia. E restare padroni delle nostre quattro virtù, coraggio, perspicacia, simpatia, solitudine. La solitudine è infatti presso di noi una virtù, in quanto sublime inclinazione e trasporto per la pulizia, i quali indovinano come nel contatto tra uomo e uomo – «in società» – debba risultare un’inevitabile mancanza di pulizia. Ogni comunità rende in qualche modo, in qualche cosa, in qualche momento – «volgari».


287.

Che cos’è aristocratico? Che cosa significa ancor oggi la parola «aristocratico»? Da che cosa si tradisce, in che cosa si riconosce, sotto questo greve velato cielo della incipiente signoria della plebe, per opera della quale tutto diventa opaco e plumbeo, l’uomo aristocratico?

Non sono le azioni che lo attestano – le azioni sono sempre ambigue, sempre insondabili; non sono neppure le «opere». Si trova oggi, tra gli artisti e i dotti, un buon numero di persone che attraverso le loro opere rivelano come una profonda brama li incalzi verso quel che è aristocratico: ma proprio questo bisogno verso la nobiltà è radicalmente diverso dai bisogni della stessa anima aristocratica, ed è addirittura l’eloquente e pericoloso segno distintivo della sua mancanza. Non sono le opere, è la fede che su questo punto decide, che qui stabilisce la gerarchia, per adottare nuovamente un’antica formola religiosa in un senso nuovo e più profondo: una certa sicurezza di base che un’anima aristocratica ha riguardo a se stessa, qualcosa che non si può cercare né trovare e forse neppure perdere. – L’anima aristocratica ha un profondo rispetto per se stessa.


293.

Un uomo che dice: «Questo mi piace, lo faccio mio e lo voglio proteggere e difendere contro tutti»; un uomo che è capace di sposare una causa, di attuare una decisione, di serbarsi fedele a un pensiero, di tener saldamente una donna, di punire e abbattere un temerario; un uomo che ha la sua collera e la sua spada, e presso il quale si rifugiano i deboli, i sofferenti, gli oppressi e perfino le bestie, quasi suoi naturali tributari, un tal uomo è per natura è signore e, se prova pietà, la sua pietà ha valore!

Che importanza ha la pietà di coloro che soffrono, o di coloro che addirittura la predicano? Esiste oggi quasi ovunque in Europa una morbosa sensibilità e suscettibilità al dolore e così pure una ripugnante incontinenza nelle lamentazioni, un'effeminatezza che con la religione e un filosofico guazzabuglio vorrebbe d'arsi l'aria di qualcosa di sublime. Esiste insomma un preciso culto della sofferenza. L’assenza di virilità in ciò che in tali ambienti di visionari viene battezzato come «pietà» è la prima cosa, a mio parere, che balza agli occhi. Occorre dare vigorosamente e radicalmente il bando a questa nuovissima specie del cattivo gusto; e io infine mi auguro che in opposizione a tutto ciò ci si metta attorno al cuore e al collo il buon amuleto «gai saber», – «gaia scienza», per renderlo chiaro ai Tedeschi.


Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male (1886). Cosa è aristocratico.

Simone Sala