Cavalcare la tigre Lettura di 12 minuti

Coperture del nichilismo

Abbiamo giudicato or ora importante l'indifferenza già ostentata da certa gioventù in crisi per le prospettive della rivoluzione sociale. In relazione a ciò, sarà opportuno ampliare alquanto gli orizzonti mettendo in evidenza quel particolare genere di evasione e di anestetizzazione di una umanità a cui è venuto meno il senso dell'esistenza, che si cela appunto nelle varietà del mito economico-sociale moderno: si presenti esso nella forma della prosperity «occidentale» ovvero in quella dell'ideologia marxistico-comunista. In entrambi i casi ci si trova sempre nell'orbita del nichilismo, di un nichilismo che, materialmente, ha proporzioni assai più spettacolari di quelle proprie ai gruppi estremisti dove la crisi si mantiene allo stato acuto ed è priva di coperture.

Abbiamo già ricordato quale sia lo sfondo proprio al mito in discorso: l'interpretazione come progresso data da una storiografia ben organizzata ai processi che hanno preparato il nichilismo europeo. Tale sfondo è, in essenza, identico sia nel mito «occidentale» che in quello del comunismo. L'uno e l'altro si trovano tuttavia in un rapporto, diciamo così, dialettico, che va a svelarne il vero significato esistenziale.

Per la sua pesante grossolanità, pel suo più esplicito riferirsi al motivo di base — all'economia — nel mito comunista sono più facilmente raccoglibili gli elementi che ne indicano il senso ultimo. Come è noto, da esso ha preso forma una violenta polemica contro tutti i fenomeni di crisi spirituale di cui fin qui si è parlato; essi vengono bensì riconosciuti, ma sono messi a carico del «decadentismo borghese», del «crepuscolarismo», dell'«individualismo anarchico» che sarebbero le caratteristiche di elementi borghesi alienatisi dalla realtà; sarebbero forme terminali di disfacimento prodottesi presso ad un dato sistema economico condannato, al sistema capitalistico. La crisi viene, dunque, presentata esclusivamente come quella dei valori e degli ideali facenti da sovrastruttura a quel sistema, che, divenuti ipocrisia e menzogna, non hanno più nulla a che fare con la condotta pratica degli individui e con le forze motrici dell'epoca. La lesione esistenziale dell'umanità viene, in genere, spiegata come un effetto dell'organizzazione economica, materiale, di una società come quella capitalistica. Il vero rimedio, il principio di un «nuovo vero umanismo», di una integrità umana e di una «felicità mai prima conosciuta» sarebbe perciò dato dalla istituzione di un diverso sistema economico-sociale, dall'abolizione del capitalismo, dalla istituzione della società comunista dei lavoratori quale sta prendendo forma nell'area sovietica. Già Carlo Marx aveva esaltato nel comunismo «la presa di possesso reale dell'essenza umana da parte dell'uomo e per l'uomo, il ritorno dell'uomo a se stesso quale uomo sociale, cioè quale uomo umano», questo comunismo equivalendo per lui a un perfetto naturalismo e, appunto, al vero umanismo.

Nelle sue forme radicali questo mito — che dove si è affermato controllando movimenti, organizzazioni e popoli si unisce ad una corrispondente educazione, ad una specie di lobotomia psichica intesa a neutralizzare metodicamente fin dall'infanzia ogni forma di sensibilità e di interesse superiore, ogni modo di pensare che non sia in termini di economia e di processi economico-sociali — è quello che ha dietro di sé il vuoto più pauroso e che presenta il valore dell'oppiaceo più deleterio finora somministrato ad una umanità sradicata. Tuttavia qui l'inganno non è diverso che nel mito della prosperity, specie in quelle forme di esso che nell'«Occidente», incuranti del fatto che ci si muove anche materialmente, politicamente, in relazione alla lotta pel dominio del mondo, su di un vulcano, vanno delineandosi nella euforia tecnologica propiziata da certe prospettive della cosiddetta «seconda rivoluzione industriale» dell'era atomica.

Abbiamo parlato di una specie di dialettica che porta alla dissoluzione interna di questa tematica, inquantochè nell'area comunista il mito in discorso ha tratto essenzialmente la sua forza motrice dal fatto che vengono presentati come Stati futuri da realizzare, col senso di Stati dove problemi «individuali» e crisi «decadentistiche» più non esisteranno, condizioni economico-sociali le quali nell'area «occidentale» odierna o degli Stati nordici, esistono già di fatto. È il fascino di una meta, che però svanisce nel punto in cui la si sia raggiunta. L'ideale economico-sociale, futuro per l'umanità proletaria, in realtà appare spiritualmente già scontato proprio nella società «occidentale» dove, ad onta della prognosi di Marx e di Engels, un clima di prosperity si è già esteso a vasti strati sociali, nelle forme di una esistenza sazia, facile e confortevole, forme che il marxismo, in fondo, non condannava in sé ma solo perché le riteneva il privilegio di una classe superiore di «sfruttatori» capitalisti, non un bene comune di un collettivo livellato. Ma gli orizzonti restano essenzialmente gli stessi e vedremo quali conseguenza, in relazione agli sviluppi più recenti, ne ha tratto il cosiddetto movimento contestatario.

Comunque, dell'una e dell'altra ideologia economico-sociale l'errore e l'illusione sono gli stessi, cioè l'assumere seriamente che la miseria esistenziale si riduca a quella di chi, in un modo o nell'altro, soffre dell'indigenza materiale, del depauperamento dovuto ad un dato sistema economico-sociale; che essa, pertanto, sia maggiore nel diseredati e nel proletario che non in chi vive in condizioni economiche agiate o privilegiate; che, di conseguenza, essa debba venir automaticamente meno con la «libertà dal bisogno», con l'elevamento generale delle condizioni materiali dell'esistenza. La verità è invece che il senso dell'esistenza può mancare sia negli uni che negli altri, che fra miseria materiale e spirituale non esiste nessun rapporto. Solo agli strati più bassi e ottusi della società si può dare ad intendere che la formula di ogni felicità e integrità umana sia ciò che è stato giustamente chiamato l'«ideale animale», un benessere quasi da bestiame bovino. Non a torto Hegel ha scritto che le epoche di benessere materiale sono pagine bianche nel libro della storia, e il Toynbee ha mostrato che nella sfida che per l'uomo costituiscono condizioni ambientali e spirituali dure e problematiche, sta spessissimo l'incentivo per destarsi, in una situazione quasi di sfida — challenge — di forze creative di civiltà. In certi casi, non è affatto un paradosso dire che chi è veramente pietoso dovrebbe cercare di rendere dura la vita al prossimo. È un luogo comune che ogni più alta virtù si smussa e si atrofizza in condizioni facili, cioè quando l'uomo non è costretto a dar prova di se stesso, nell'uno o nell'altro modo — e non importa, per lo scrutinio finale, se in tali congiunture, per selezione naturale, una buona parte cada, si perda. È giusto quel che André Breton ha scritto: «Bisogna impedire che la precarietà affatto artificiale delle condizioni sociali veli la precarietà reale della condizione umana».

Ma, per non allontanarci troppo dal nostro argomento, rileveremo che oggi proprio in margine ad una civiltà della prosperity si sono verificate le forme più spinte della crisi esistenziale moderna: v'è appunto da riferirsi al caso delle correnti delle nuove generazioni dianzi citate, dove la ribellione, il disgusto e l'ira si sono manifestati, non già in un sottoproletariato miserabile e oppresso, ma spesso anche in giovani a cui nulla mancava, perfino tra figli di milionari. E fra i tanti è anche significativo il fatto, statisticamente accertato, che nei Paesi poveri ci si uccide molto più raramente che in quelli ricchi: ciò vuol dire che la problematica della vita viene sentita più nei secondi che nei primi. La cosiddetta «disperazione bianca» può aspettare al traguardo del messianismo economico-sociale, come nella parodia di una commedia musicale circa un'isola dell'utopia, dove si ha tutto, «giuoco, donne e whisky», ma in cui ritorna sempre il senso del vuoto dell'esistenza, il senso che «manca pur qualcosa».

Non esiste, pertanto, alcun rapporto, se mai esiste un rapporto inverso, fra senso della vita e condizioni di benessere economico. Esempio insigne, e non di oggi, ma del mondo tradizionale: colui che su di un piano metafisico denunciò radicalmente il vuoto dell'esistenza e gli inganni del «dio della vita» indicando la via del risveglio spirituale, il buddha Shâtkyamuni, non era un oppresso e un affamato, un rappresentante di strati sociali simili a quella plebe dell'impero Romanoa cui a tutta prima si rivolse la predicazione rivoluzionaria cristiana; fu invece un principe di razza in tutto lo splendore della potenza e in tutta la pienezza della sua gioventù. Il vero significato del mito economico-sociale, quali pur siano le sue varietà, è pertanto quello di un mezzo per l'anestetizzazione interiore o per una profilassi intesa a eludere il problema di una esistenza priva di ogni senso e anzi a consolidare in tutti i modi questa fondamentale insignificanza della vita dell'uomo moderno. Possiamo dunque parlare sia di un oppiaceo ben più reale di quello che secondo i marxisti sarebbe stato somministrato ad una umanità non ancora illuminata e evoluta, mistificata dalle fedi religiose, sia, per un altro lato, del metodo organizzato di un nichilismo attivo. Le prospettive, in buona parte del mondo attuale, sono più o meno quelle zarathustriane relative all'«ultimo uomo»: «Prossimo è il tempo del più spregevole degli uomini, che non sarà più disprezzare se stesso», l'ultimo uomo «dalla razza tenace e pullulante». «Noi abbiamo inventato la felicità, dicono, ammiccando, gli ultimi uomini», hanno «abbandonato la regione dove dura è la vita».

Peraltro, in questo contesto un fenomeno più recente è pieno di significato, quello della già accennata cosiddetta «contestazione globale». In parte, essa ha preso le mosse appunto dall'ordine di idee or ora accennato. Sulla scia delle vedute di un Marcuse si è giunti a rilevare una concordanza fondamentale, in termini di società tecnologica consumistica, fra il sistema dei Paesi comunisti progrediti e quelli dell'area capitalista, per il venir meno, nei primi, dell'istanza originaria proletaria rivoluzionaria, questa istanza in essi essendo stata oramai in parte superata in quanto la «classe lavoratrice» è stata immessa nel sistema consumistico, assicurandole un tenore di vita non più «proletario» ma borghese, la privazione del quale era stato l'incentivo rivoluzionario. Ma presso a questa convergenza è stato messo in luce il potere condizionante dell'unico «sistema», il quale si esplica nel senso di una distruzione di ogni valore superiore della vita e della personalità. Al livello, più o meno, proprio dell'«ultimo uomo» preconizzato da Nietzsche, l'individuo della società consumistica contemporanea ritiene ormai, nella gran massa, esser un prezzo troppo alto e un assurdo rinunciare alla comodità, al benessere medio offertogli dalla civiltà dei consumi evoluta, pur di rivendicare una astratta libertà. Così accetta fattualmente di buon grado tutti i condizionamenti livellatori in atto nel sistema. Questa constatazione ha fatto passare dal marxismo rivoluzionario, privato della sua forza motrice originaria, appunto ad una «contestazione globale» del sistema, la quale, peraltro, nel suo non disporre di nessun principio superiore, nel suo carattere irrazionale, anarcoide, istintivo, nel suo appellarsi, in mancanza di altro, a minoranze squallide di outsiders, di esclusi e di reietti, all'occasione anche al cosidetto «Terzo Mondo» (nel qual caso riaffiorano però fisime marxiste) o ai negri, come all'unico potenziale rivoluzionario, sta effettivamente nel segno del nulla, è una isterica «rivoluzione del nulla e del "sottosuolo"» — «vespe impazzite chiuse in un recipiente di vetro che sbattono freneticamente contro le pareti di esso»: con il che si conferma, per altra va, il carattere generale nichilista dell'epoca, a dir vero, in un quadro assai più vasto, perché la «contestazione» contemporanea non è più quella di singoli individui e delle cerchie assai ristrette di cui abbiamo parlato finora, dove però spesso il livello intellettuale era indubitabilmente più alto.


Julius Evola, Cavalcare la tigre (1961). Capitolo 5 — Coperture del nichilismo europeo. Il mito economico-sociale e la «contestazione».

Simone Sala