Sull'utilità e il danno... Lettura di 22 minuti

Gioventù e vita

A questo punto, pensando alla gioventù, io grido: terra! terra! Sono stufo e arcistufo di una traversata che appassionatamente cerca ed erra per mari oscuri e stranieri! Ora finalmente appare una costa: qualunque essa sia, bisogna approdarvi, e il peggior porto di fortuna è meglio che tornare a traballare ancora nell’infinità scettica e priva di speranza. Pensiamo per il momento a toccare terra; più tardi troveremo i porti buoni e faciliteremo l’arrivo a coloro che verranno dopo.

Questa traversata fu pericolosa e movimentata. Come siamo lontani ora dalla tranquilla contemplazione, con la quale vedemmo la nostra nave prendere il largo per la prima volta! Indagando i pericoli della storia, ci siamo trovati massimamente esposti a tutti questi pericoli; noi stessi mettiamo in mostra le tracce di quei mali che, in seguito a un eccesso di storia, si sono abbattuti sugli uomini dell’epoca moderna, e proprio questa trattazione mostra, non voglio nasconderlo, nella smoderatezza della sua critica, nell’immaturità della sua umanità, nel frequente passaggio dall’ironia al cinismo, dall’orgoglio alla scepsi, il suo carattere moderno, il carattere della personalità debole. E tuttavia io confido nella forza ispiratrice che al posto di un genio tutelare guida il mio carro, confido che la gioventù mi abbia ben guidato, se ora mi costringe a una protesta contro l’educazione storica della gioventù da parte dell’uomo moderno, e se colui che protesta esige che l’uomo impari innanzitutto a vivere, e usi la storia solo al servizio della vita appresa. Bisogna essere giovani per capire questa protesta, anzi, nella precoce canizie della nostra gioventù odierna quasi non si può essere abbastanza giovani da sentire ancora contro che cosa qui propriamente si protesti. /.../

Essi giudicheranno forse che questa cultura è stata solo una specie di sapere intorno alla cultura, e per di più un sapere molto falso e superficiale. Falso e superficiale invero, perché si tollerò la contraddizione fra vita e sapere, perché non si vide l’elemento caratteristico nella cultura dei veri popoli civili: che la cultura può svilupparsi e fiorire solo dalla vita, mentre presso i Tedeschi essa viene appuntata come un fiore di carta o viene versata sopra come un’inzuccheratura, e perciò è destinata a rimanere sempre menzognera e sterile. Ma l’educazione della gioventù tedesca prende le mosse proprio da questo falso e sterile concetto della cultura: la sua meta, pensata in modo molto puro e alto, non è affatto il libero uomo cólto, bensì il dotto, l’uomo di scienza, e precisamente l’uomo di scienza utilizzabile al più presto possibile, che si pone in disparte dalla vita per riconoscerla più chiaramente; il suo risultato, visto in modo molto empirico e corrente, è il filisteo storico-estetico della cultura, il saccente e aggiornato cicalatore sullo Stato, sulla Chiesa e sull’arte, il sensorio per mille specie di sensazioni, lo stomaco insaziabile, che tuttavia non sa che cosa sia un’onesta fame e sete. Che un’educazione con quella meta e con questo risultato sia un’educazione contro-natura, lo sente solo l’uomo che non si sia ancora appieno formato in essa, lo sente solo l’istinto della gioventù, perché essa ha ancora l’istinto della natura, che solo artificialmente e violentemente viene spezzato da quell’educazione. Ma chi vuole a sua volta spezzare questa educazione, deve aiutare la gioventù a parlare, deve far luce con la chiarezza dei concetti alla sua inconscia opposizione e fare di questa una coscienza che sia conscia e che parli ad alta voce. Ma come puòraggiungere uno scopo così stupefacente?

Innanzitutto distruggendo una superstizione, la credenza nella necessità di quell’operazione educativa. Si crede forse che non esista nessun’altra possibilità se non appunto la nostra realtà odierna sommamente penosa? Si provi ad esaminare in questo senso la letteratura sull’istruzione e l’educazione superiore degli ultimi decenni: chi esamina si accorgerà con sua spiacevole sorpresa quanto uniformemente, malgrado tutte le oscillazioni delle proposte, malgrado ogni violenza di contraddizioni, sia pensato il fine complessivo dell’educazione, quanto irresponsabilmente il risultato finora ottenuto, l’«uomo cólto» come viene oggi inteso, sia stato assunto quale necessario e razionale fondamento di ogni ulteriore educazione. E così quel monotono canone suonerebbe all’incirca: il giovane deve cominciare con un sapere sulla cultura, non già con un sapere sulla vita, e ancor meno con la vita e l’esperienza stessa. Precisamente, questo sapere sulla cultura viene istillato o inculcato al giovane come sapere storico; ciò significa che la sua mente viene riempita di un’enorme quantità di concetti che sono ricavati dallaconoscenza, massimamente mediata, dei tempi e dei popoli passati, non dall’intuizione immediata della vita. La sua brama di sperimentare qualcosa per se stesso e di sentir crescere in sé un sistema coerente e vivo di esperienze proprie – tale brama viene stordita e come resa ebbra dal delizioso miraggio che sia possibile assommare in sé in pochi anni le esperienze più alte e ragguardevoli dei tempi antichi, e proprio dei tempi più grandi. È proprio lo stesso metodo folle che mena i nostri giovani artisti figurativi nei musei e nelle gallerie, invece che nel laboratorio di un maestro e soprattutto nell’unico laboratorio dell’unica maestra, la natura. Già, come se si potesse così, da frettolosi passeggiatori della storia, imitare il passato nelle sue abilità e nelle sue arti, nelle sue vere conquiste di vita! Già, come se la vita stessa non fosse un mestiere che deve essere imparato dalla base e di continuo, e che deve essere esercitato senza risparmio, se non vuol fare sbocciare acciarponi e chiacchieroni!

Platone riteneva necessario che la prima generazione della sua nuova società (nello Stato perfetto) venisse educata con l’aiuto di una forte menzogna necessaria; i fanciulli dovevano imparare a credere di aver abitato già tutti per un certo tempo, in sogno, sotto terra, dove erano stati impastati e formati dall’artefice della natura. Impossibile ribellarsi a questo passato! Impossibile opporsi all’opera degli dèi! Ciò deve essere ritenuto inviolabile legge di natura: chi nasce come filosofo ha nel suo corpo oro, chi come guardiano, soltanto argento, chi come lavoratore, ferro e bronzo. Come non è possibile mescolare questi metalli, spiega Platone, così non sarà mai possibile spostare e confondere l’ordine delle caste; la fede nell’aeterna veritas di questo ordine è il fondamento della nuova educazione e pertanto del nuovo Stato. — Così ora anche il Tedesco moderno crede nell’aeterna veritas della sua educazione, della sua specie di cultura; e tuttavia questa fede cade, come sarebbe caduto lo Stato platonico, se alla menzogna necessaria viene contrapposta una verità necessaria: che il Tedesco non ha una cultura, perché in base alla sua educazione non può affatto averla. Egli vuole il fiore senza radice e stelo: lo vuole dunque invano. È questa la semplice verità, una verità spiacevole e grossolana, proprio una verità necessaria.

Ma in questa verità necessaria deve essere educata la nostra prima generazione; essa certamente ne soffre nel modo più grave, poiché deve con essa educare se stessa, e precisamente se stessa contro se stessa, a una nuova consuetudine e natura, partendo da una vecchia e prima natura e consuetudine; sicché potrebbe dire a se stessa in antico spagnolo: Defienda me Dios de my, Dio mi guardi da me, ossia dalla natura già da me acquisita. Essa deve assaporare quella verità goccia a goccia, assaporarla come una medicina amara e violenta, e ogni individuo di questa generazione deve superarsi per dare su di sé il seguente giudizio che sopporterebbe già più facilmente come giudizio generale su un’epoca intera: noi siamo senza cultura, ancor più, noi siamo guastati rispetto alla vita, al giusto e semplice vedere e udire, al felice cogliere ciò che è prossimo e naturale, e finora non abbiamo ancora neanche il fondamento di una cultura, perché noi stessi non siamo convinti di avere in noi una vita verace. Eccomi sbriciolato e infranto, in complesso scomposto quasi meccanicamente in un interno e in un esterno, cosparso di concetti come di denti di drago, uno che genera draghi concettuali, sofferente inoltre della malattia delle parole e senzafiducia in un sentimento proprio che non sia stato ancora contrassegnato con parole: io, in quanto sono una tale non viva e tuttavia straordinariamente attiva fabbrica di concetti e di parole, ho forse ancora il diritto di dire di me cogito, ergo sum, ma non vivo, ergo cogito. Mi è garantito il vuoto «essere», non la piena e verde «vita»; il mio sentimento originario mi assicura soltanto che io sono un essere pensante, non che io sono un essere vivo, che io sono non un animal, ma tutt’al più un cogital. Datemi prima la vita, e allora io vi creerò da essa anche una cultura! — Così grida ogni individuo di questa prima generazione, e tutti questi individui si riconosceranno fra loro a questo grido. Chi darà loro questa vita?

Nessun dio e nessun uomo: solo la loro stessa gioventù. Liberate dalle catene quest’ultima e avrete liberato con essa la vita. Essa era infatti solo nascosta, in prigione, non è ancora inaridita e spenta — interrogate voi stessi!

Ma è malata, questa vita liberata dalle catene, e deve essere guarita. È malata di molti mali e soffre non solo per il ricordo delle sue catene — essa soffre, ciò che a noi qui principalmente importa, della malattia storica. L’eccesso di storia ha intaccato la forza plastica della vita, essa non è più capace di servirsi del passato come di un robusto nutrimento. Il male è terribile, e nondimeno, se la gioventù non avesse il dono chiaroveggente della natura, nessuno saprebbe che esso è un male e che si è perduto un paradiso di salute. Ma questa stessa gioventù indovina anche col salutare istinto della natura stessa come questo paradiso si possa riconquistare; essa conosce gli unguenti e le medicine contro la malattia storica, contro l’eccesso dell’elemento storico: come si chiamano? Non ci si stupisca, si chiamano con nomi di veleni: i rimedi contro l’elemento storico si chiamano — l’antistorico e il sovrastorico. Con questi nomi ritorniamo all’inizio della nostra trattazione e alla sua serenità.

Con il termine «l’antistorico» designo la forza e l’arte di poter dimenticare e di rinchiudersi in un orizzonte limitato; «sovrastoriche» chiamo le potenze che distolgono lo sguardo dal divenire, volgendolo a ciò che dà all’esistenza il carattere dell’eterno e dell’immutabile, all’arte e alla religione. La scienza — è essa infatti che parlerebbe di veleni — in quella forza, in queste potenze vede potenze e forze avverse: essa reputa infatti vera e giusta, ossia una considerazione scientifica, solo la considerazione delle cose che vede dappertutto un divenuto, un elemento storico, e in nessun luogo un ente, un eterno. Allo stesso modo che essa vive in intima contraddizione con le forze eternizzanti dell’arte e della religione, così essa odia l’oblio, la morte del sapere, come pure cerca di eliminare tutte le delimitazioni dell’orizzonte e getta l’uomo in quel mare infinito e illimitato di onde luminose, nel mare del divenire conosciuto.

Almeno vi potesse vivere! Allo stesso modo che per un terremoto le città crollano, si spopolano e l’uomo costruisce solo tremando e di nascosto la sua casa su un suolo vulcanico, così anche la vita si abbatte su se stessa, diventando debole e scoraggiata, se il terremoto di idee che la scienza provoca toglie all’uomo il fondamento di tutta la sua sicurezza e la sua pace, la fede in ciò che perdura ed è eterno. Ma la vita deve dominare sulla conoscenza, sulla scienza, oppure la conoscenza deve dominare sulla vita? Quale delle due forze è la più alta e la decisiva? Nessuno può dubitarne: la vita è il potere più alto, dominante, poiché una conoscenza che distruggesse la vita distruggerebbe nel contempo se stessa. La conoscenza presuppone la vita, ha cioè rispetto alla conservazione della vita lo stesso interesse che ogni essere ha rispetto alla continuazione della propria esistenza. Quindi la scienza ha bisogno di una superiore vigilanza e sorveglianza; un’igiene della vita si pone proprio accanto alla scienza, e una proposizione di questa igiene suonerebbe appunto: l’antistorico e il sovrastorico sono i rimedi naturali contro il soffocamento della vita da parte della storia, contro la malattia storica. È probabile che noi, malati di storia, dobbiamo anche soffrire per i rimedi. Ma che noi soffriamo per essi non è una prova contro la giustezza del metodo terapeutico scelto.

E qui io vedo la missione di quella gioventù, di quella prima generazione di combattenti e di uccisori di serpenti, che precede una cultura e un’umanità più felici e più belle, senza avere, di questa felicità futura e della bellezza avvenire, qualcosa di più di un promettente presentimento. Questa gioventù soffrirà per il male e al tempo stesso per i rimedi: e tuttavia crede di potersi vantare di una salute più robusta e in genere di una natura più naturale delle generazioni che l’hanno preceduta, degli «uomini» e «vecchi» cólti del presente. La sua missione consiste peraltro nello scuotere le idee che questo presente ha della «salute» e della «cultura», e nel generare scherno e odio contro così ibridi mostri concettuali; e il segno di garanzia della propria salute più robusta è proprio questo, che essa, cioè questa gioventù, non può neanche usare, per designare la propria natura, nessun concetto, nessuna parola settaria fra le correnti monete-parola e monete-concetto del presente, e viene invece convinta solo da una forza in essa attiva, che lotta, stacca e divide, e in ogni ora buona da un sempre accresciuto sentimento della vita. Si può contestare che questa gioventù abbia già cultura — ma per quale gioventù questo sarebbe un rimprovero? Le si può rimproverare rudezza e intemperanza — ma essa non è ancora abbastanza vecchia e saggia per moderarsi; soprattutto essa non ha bisogno di fingere e di difendere nessuna cultura compiuta, e gode di tutte le consolazioni e dei privilegi della gioventù, specialmente del privilegio di una valorosa e temeraria onestà e l’entusiasmante conforto della speranza.

Di questi speranzosi so che comprendono da vicino tutte queste astrazioni e che, con la loro esperienza più propria, se le tradurranno in una dottrina personalmente intesa; per il momento gli altri possono non vedere altro che piatti coperti, che potrebbero anche essere vuoti, finché un giorno vedranno sorpresi coi propri occhi che i piatti sono riempiti, e che in queste astrazioni si trovavano iscatolati e compressi attacchi, pretese, impulsi vitali e passioni, che non potevano rimanere a lungo così nascosti. Rimandando questi dubbiosi al tempo che tutto porta alla luce, mi rivolgo in conclusione a quella società di speranzosi, per narrar loro con una similitudine l’andamento e il corso del loro risanamento, della loro salvazione dalla malattia storica, e quindi la loro stessa storia, fino al momento in cui saranno un’altra volta abbastanza sani per coltivare di nuovo la storia e per servirsi del passato sotto il dominio della vita, nel triplice senso detto, cioè monumentale, antiquario e critico. In quel momento saranno più ignoranti dei «cólti» del presente; infatti avranno disimparato molto e addirittura perduto ogni voglia di dare in genere ancora uno sguardo a ciò che quei cólti vogliono soprattutto sapere; i loro segni di riconoscimento, visti secondo la prospettiva di quei cólti, saranno proprio la loro «incultura», la loro indifferenza e chiusura verso molte cose celebri e perfino verso varie cose buone. Ma, a quel punto finale della loro guarigione, essi saranno diventati di nuovo uomini e avranno cessato di essere aggregati simili a uomini — ciò è qualcosa! Queste sono ancora speranze! Non vi ride il cuore per questo, o speranzosi?

E come arriveremo a quella meta? domanderete voi. Il dio delfico vi apostrofa subito, all’inizio di una peregrinazione verso quella meta, con la sua sentenza: «Conosci te stesso». È una sentenza ardua, poiché quel dio «non nasconde e non rivela, ma soltanto accenna», come ha detto Eraclito. A che cosa accenna?

Ci furono secoli in cui i Greci si trovarono in un pericolo simile a quello in cui ci troviamo noi, di perire cioè a causa dell’inondazione delle cose straniere e passate, a causa della «storia». Mai essi vissero in superba intangibilità: al contrario, la loro «cultura» fu a lungo un caos di forme e di idee straniere, semitiche, babilonesi, lidiche ed egizie, e la loro religione una vera lotta tra gli dèi dell’intero Oriente: pressappoco come oggi la «cultura tedesca» e la religione sono un caos — che nasconde una lotta — di tutti gli altri paesi, di tutti i tempi passati. E tuttavia la cultura ellenica non divenne un aggregato, grazie a quel responso di Apollo. I Greci impararono a poco a poco a organizzare il caos, concentrandosi, secondo l’insegnamento delfico, su se stessi, vale a dire sui loro bisogni veri, e lasciando estinguere i bisogni apparenti. Così ripresero possesso di sé; non rimasero a lungo gli eredi sovraccarichi e gli epigoni dell’intero Oriente; dopo faticosa lotta con se stessi, divennero, con l’interpretazione pratica di quel responso, coloro che ampliarono e accrebbero il tesoro ereditato, gli anticipatori e i modelli di tutti ipopoli civili successivi.

È questo un simbolo per ognuno di noi: ognuno deve organizzare il caos in sé, concentrandosi sui suoi bisogni veri. La sua onestà, il suo carattere gagliardo e verace dovranno in un qualche giorno insorgere contro il fatto che sempre e solo si parli ripetendo, si impari da altri e si imiti; comincerà allora a capire che la cultura può essere ancora qualcosa d’altro che decorazione della vita, cioè in fondo unicamente dissimulazione e velame, poiché ogni ornamento nasconde la cosa ornata. Così gli si svelerà il concetto greco della cultura — in contrapposizione a quello romano — il concetto della cultura come una nuova e migliorata physis, senza interno ed esterno, senza dissimulazione e convenzione, della cultura come un’unanimità fra vivere, pensare, apparire e volere. Così imparerà per esperienza propria che fu la forza superiore della natura morale, quella con cui i Greci riuscirono a vincere su tutte le altre civiltà, e che ogni accrescimento di veracità è destinato ad essere anche un avanzamento che prepara la vera cultura, sebbene questa veracità possa anche per caso nuocere seriamente proprio alla «culturalità» che è in stima, e sebbene essa possa contribuire a far cadere persino tutta una cultura decorativa.


Friedrich Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita (1874). Capitolo 10.

Simone Sala