Il Gattopardo Lettura di 25 minuti

I Siciliani

Appena seduto Chevalley espose la missione della quale era stato incaricato: «Dopo la felice annessione, volevo dire dopo la fausta unione della Sicilia al Regno di Sardegna, è intenzione del governo di Torino di procedere alla nomina a Senatori del Regno di alcuni illustri siciliani; le autorità provinciali sono state incaricate di redigere una lista di personalità da proporre all'esame del governo centrale ed eventualmente, poi, alla nomina regia e, come è ovvio, a Girgenti si è subito pensato al suo nome, Principe: un nome illustre per antichità, per il prestigio personale di chi lo porta, per i meriti scientifici, per l'attitudine dignitosa e liberale, anche, assunta durante i recenti avvenimenti». Il discorsetto era stato preparato da tempo, anzi era stato oggetto di succinte note a matita sul calepino che adesso riposava nella tasca posteriore dei pantaloni di Chevalley. Don Fabrizio però non dava segno di vita: le palpebre pesanti lasciavano appena intravedere lo sguardo. Immobile, la zampaccia dai peli biondastri ricopriva interamente una cupola di San Pietro in alabastro che stava sul tavolo.

Ormai avvezzo alla sornioneria dei loquaci siciliani quando si propone loro qualcosa, Chevalley non si lasciò smontare. «Prima di far pervenire la lista a Torino i miei superiori hanno creduto doveroso informarne lei stesso, e domandare se questa proposta sarebbe di suo gradimento. Richiedere il suo assenso, nel quale il Governo spera molto è stato l'oggetto della mia missione qui; missione che peraltro mi ha valso l'onore e il piacere di conoscere lei e i suoi, questo magnifico palazzo, e questa Donnafugata tanto pittoresca».

Le lusinghe scivolavano via dalla personalità del Principe come l'acqua dalle foglie delle ninfee: questo è uno dei vantaggi dei quali godono gli uomini che sono nello stesso tempo orgogliosi ed abituati ad esserlo. «Adesso questo qui s'immagina di venire a farmi un grande onore», pensava, «a me, che sono quel che sono, fra l'altro anche Pari del Regno di Sicilia, il che dev'essere press'a poco come essere Senatore. Vero che i doni bisogna valutarli in relazione a chi li offre: un contadino che mi dà il suo pezzo di pecorino mi fa un regalo piú grande del principe di Làscari quando m'invita a pranzo. Chiaro. Il guaio è che il pecorino mi dà la nausea. E cosí non resta che la gratitudine del cuore che non si vede ed il naso arricciato del disgusto che si vede anche troppo». Le idee di don Fabrizio in fatto di Senato erano vaghissime: malgrado ogni suo sforzo esse lo riconducevano sempre al Senato romano: al senatore Papirio che spezzava una bacchetta sulla testa di un Gallo maleducato, a un cavallo Incitatus che Caligola aveva fatto senatore, onore questo che anche a suo figlio Paolo sarebbe apparso eccessivo. Lo infastidiva il riaffacciarsi insistente di una frase detta talvolta da padre Pirrone: Senatores boni viri, senatus mala bestia. Adesso vi era anche il senato dell'Impero di Parigi, ma non era che una assemblea di profittatori muniti di grosse prebende. Vi era o vi era stato un senato anche a Palermo, ma si era trattato soltanto di un comitato di amministratori civili, e di quali amministratori! Robetta, per un Salina. Volle sincerarsi: «Ma insomma, cavaliere, mi spieghi un po' che cosa è veramente essere senatori: la stampa della passata monarchia non lasciava passare notizie sul sistema costituzionale degli altri Stati italiani, e un soggiorno di una settimana a Torino, due anni fa, non è stato sufficiente ad illuminarmi. Cosa è? Un semplice appellativo onorifico? Una specie di decorazione, o bisogna svolgere funzioni legislative, deliberative?»

Il Piemontese, il rappresentante del solo Stato liberale in Italia, si inalberò: «Ma Principe, il Senato è la camera alta del Regno! In essa il fiore degli uomini politici italiani, prescelti dalla saggezza del Sovrano, esaminano, discutono, approvano o respingono quelle leggi che il governo propone per il progresso del paese; esso funziona nello stesso tempo da sprone e da redina: incita al ben fare, impedisce di strafare. Quando avrà accettato di prendervi posto, lei rappresenterà la Sicilia al pari dei deputati eletti, farà udire la voce di questa sua bellissima terra che si affaccia adesso al panorama del mondo moderno, con tante piaghe da sanare, con tanti giusti desideri da esaudire».

Chevalley avrebbe continuato forse a lungo su questo tono, se Bendicò non avesse, da dietro la porta, chiesto alla saggezza del Sovrano di essere ammesso. Don Fabrizio fece l'atto di alzarsi per aprire, ma lo fece con tanta mollezza da dar tempo al Piemontese di lasciarlo entrare lui; Bendicò, meticoloso, fiutò a lungo i calzoni di Chevalley; dopo, persuaso di aver da fare con un buon uomo, si accovacciò sotto la finestra e dormí.

«Stia a sentirmi, Chevalley; se si fosse trattato di un segno di onore, di un semplice titolo da scrivere sulla carta da visita e basta, sarei stato lieto di accettare: trovo che in questo momento decisivo per il futuro dello Stato italiano è dovere di chiunque dare la propria adesione, evitare l'impressione di screzi dinanzi a quegli Stati esteri che ci guardano con un timore o con una speranza che si riveleranno ingiustificati, ma che per ora esistono».

«Ma allora, Principe, perché non accettare?»

«Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spiegherò; noi siciliani siamo stati avvezzi da una lunga, lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva cosí non si scampava dagli esattori bizantini, dagli emiri berberi, dai viceré spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti cosí. Avevo detto adesione, non avevo detto partecipazione. In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere ad un membro della vecchia classe dirigente di sviluppare e portare a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene, per conto mio credo che molto sia stato male, ma voglio dirle subito ciò che lei capirà da solo quando sarà stato un anno fra noi. In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il la; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei Chevalley, e quanto la regina d'Inghilterra; eppure da duemilacinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è colpa nostra. Ma siamo stanchi e svuotati lo stesso».

Adesso Chevalley era turbato. «Ma ad ogni modo questo adesso è finito; adesso la Sicilia non è piú terra di conquista, ma libera parte di un libero Stato».

«L'intenzione è buona, Chevalley, ma tardiva; del resto le ho già detto che in massima parte è colpa nostra. Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle meraviglie del mondo moderno; per conto mio vedo piuttosto una centenaria trascinata in carrozzino all'Esposizione Universale di Londra, che non comprende nulla, che s'impipa di tutto, delle acciaierie di Sheffield come delle filande di Manchester, e che agogna soltanto a ritrovare il proprio dormiveglia fra i cuscini sbavati e l'orinale sotto il letto».

Parlava ancora piano, ma la mano attorno a San Pietro si stringeva; piú tardi la crocetta minuscola che sormontava la cupola venne trovata spezzata. «Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i piú bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semidesti; da questo il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando sono defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l'incredibile fenomeno della formazione attuale di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae soltanto perché è morto».

Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley; soprattutto gli riusciva oscura l'ultima frase: aveva visto i carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati, aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che fossero autentiche vecchie tradizioni. Disse: «Ma non le sembra di esagerare un po', Principe? Io stesso ho conosciuto a Torino dei siciliani emigrati, Crispi per nominarne uno, che mi son sembrati tutt'altro che dei dormiglioni».

Il Principe si seccò: «Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostri semidesti, del resto, avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma lei forse potrà vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso torpore: lo fanno tutti. D'altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l'ambiente, il clima, il paesaggio siciliano. Queste sono le forze che insieme e forse piú che le dominazioni estranee e gli incongrui stupri hanno formato l'animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l'arsura dannata, che non è mai meschino, terra terra, distensivo, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l'inferno attorno a Randazzo e labellezza della baia di Taormina; questo clima che c'infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti Chevalley, li conti: maggio, giugno, luglio, agosto, settembre, ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l'inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l'energia che dovrebbe essere suffficiente per tre; e poi l'acqua che non c'è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora le pioggie, sempre tempestose, che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lí dove due settimane prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche, del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati, e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d'arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d'imposte spese poi altrove: tutte queste cose hanno formato il carattere nostro, che cosí rimane condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità d'animo».

L'inferno ideologico evocato in quello studiolo sgomentò Chevalley piú della rassegna sanguinosa della mattina. Volle dire qualche cosa, ma don Fabrizio era troppo eccitato adesso per ascoltarlo.

«Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall'isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire molto, molto giovani; a vent'anni è già tardi: la crosta è fatta: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori. Ma mi scusi, Chevalley, mi son lasciato trascinare e la ho probabilmente infastidito. Lei non è venuto sin qui per udire Ezechiele deprecare le sventure di Israele. Ritorniamo al nostro vero argomento: sono molto riconoscente al governo di aver pensato a me per il Senato e la prego di esprimere questa mia sincera gratitudine; ma non posso accettare. Sono un rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente compromesso col regime borbonico, ed a questo legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli dell'affetto. Appartengo ad una generazione disgraziata, a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di piú, come lei non ha potuto fare a meno di accorgersi, sono privo di illusioni; e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà di ingannare sé stesso, questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri? Noi della nostra generazione dobbiamo ritirarci in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le capriole dei giovani attorno a quest'ornatissimo catafalco. Voi adesso avete appunto bisogno di giovani, di giovani svelti, con la mente aperta al come più che al perché, e che siano abili a mascherare, a contemperare volevo dire, il loro preciso interesse particolare con le vaghe idealità pubbliche». Tacque; lasciò in pace San Pietro. Continuò: «Posso permettermi di dare a lei un consiglio da trasmettere ai suoi superiori?»

«Va da sé, Principe; esso sarà certo ascoltato con ogni considerazione; ma voglio ancora sperare che invece di un consiglio voglia darmi un assenso».

«C'è un nome che io vorrei suggerire per il Senato: quello di Calogero Sedàra. Egli ha piú meriti di me per sedervi: il casato, mi è stato detto, è antico o finirà con esserlo, piú che quel che lei chiama il prestigio, egli ha il potere; in mancanza di meriti scientifici ne ha di pratici, eccezionali la sua attività durante la crisi di maggio piú che ineccepibile è stata utilissima: illusioni non credo ne abbia piú di me, ma è abbastanza svelto per sapere crearsele quando occorra. È l'individuo che fa per voi. Ma dovete far presto perché ho inteso dire che vuol porre la propria candidatura alla Camera dei deputati». Di Sedàra si era molto parlato in prefettura: le attività di lui quale sindaco e quale privato erano note; Chevalley sussultò: era un onest'uomo e la propria stima delle camere legislative era pari alla purità delle proprie intenzioni; per questo credette opportuno non fiatare, e fece bene a non compromettersi perché, infatti dieci anni piú tardi, l'ottimo don Calogero doveva ottenere il laticlavio. Benché onesto, però, Chevalley non era stupido: mancava sí di quella prontezza di spirito che in Sicilia usurpa il nome di intelligenza, ma si rendeva conto delle cose con lenta solidità e poi non aveva la impenetrabilità meridionale agli affanni altrui. Comprese l'amarezza e lo sconforto di don Fabrizio, rivide in un attimo lo spettacolo di miseria, di abiezione, di nera indifferenza del quale da un mese era stato testimonio. Nelle ore passate aveva invidiato la opulenza, la signorilità dei Salina, adesso ricordava con tenerezza la propria vignicciuola, il suo Monterzuolo vicino a Casale, brutto, mediocre, ma sereno e vivente. Ed ebbe pietà tanto del Principe senza speranze come dei bimbi scalzi, delle donne malariche, delle non innocenti vittime i cui elenchi giungevano ogni mattina al suo ufficio: tutti eguali, in fondo, compagni di sventura segregati nel medesimo pozzo.

Volle fare un ultimo sforzo. Si alzò e l'emozione conferiva pathos alla sua voce: «Principe, ma è proprio sul serio che lei si rifiuta di fare il possibile per alleviare, per tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di cieca miseria morale nelle quali giace questo che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si cancella, i Siciliani vorranno migliorare; se gli uomini onesti si ritirano la strada rimarrà libera alla gente senza scrupolo e senza prospettive, ai Sedàra; e tutto sarà di nuovo come prima per altri secoli. Ascolti la sua coscienza, Principe, e non le orgogliose verità che ha detto. Collabori».

Don Fabrizio gli sorrideva, lo prese per la mano, lo fece sedere vicino a lui sul divano: «Lei è un gentiluomo, Chevalley, e stimo una fortuna averlo conosciuto; lei ha ragione in tutto; si è sbagliato soltanto quando ha detto: i Siciliani vorranno migliorare. Voglio raccontarle un aneddoto personale. Due o tre giorni prima che Garibaldi entrasse a Palermo mi furono presentati alcuni ufficiali di marina inglesi, in servizio su quelle navi che stavano in rada per rendersi conto degli avvenimenti. Essi avevano appreso, non so come, che io posseggo una casa alla marina, di fronte al mare con sul tetto una terrazza dalla quale si scorge tutta la cerchia dei monti intorno alla città; mi chiesero di visitare la casa, di venire a guardare quel panorama nel quale si diceva che i garibaldini si aggiravano e del quale, dalle loro navi, non si erano fatti un'idea chiara. Di fatto, Garibaldi era già a Gibilrossa. Vennero a casa, li accompagnai lassù in cima; erano dei giovanotti ingenui, malgrado i loro scopettoni rossastri. Rimasero estasiati dal panorama, dalla irruenza della luce; confessarono però che erano stati pietrificati osservando lo squallore, la vetustà, il sudiciume delle strade di accesso. Non spiegai loro che una cosa era derivata dall'altra, come ho tentato di fare con lei. Uno di loro poi, mi chiese che cosa veramente venissero a fare qui in Sicilia quei volontari italiani. They are coming to teach us good manners, risposi, but they won't succed, because we are gods. Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi. Credo che non comprendessero, ma risero e se ne andarono. Cosí rispondo anche a lei, caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è piú forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una diecina di popoli differenti, essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero lei Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti imani musulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti viceré spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III. E chi sa piú chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è civile, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta in una parola?

Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Prudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato di cose, qui ed altrove, è del feudalismo; mia cioè, per cosí dire. Sarà. Ma il feudalismo c'è stato dappertutto, le invasioni straniere pure. Non credo che i suoi antenati, Chevalley, o gli squires inglesi o i signori francesi governassero meglio dei Salina. I risultati intanto sono diversi. La ragione della diversità dev'essere in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità. Per ora, per molto tempo, non c'è niente da fare. Compiango; ma in via politica, non posso porgere un dito. Me lo morderebbero. Questi sono discorsi che non si possono fare ai Siciliani; ed io stesso, del resto, se queste cose le avesse dette lei, me ne sarei avuto a male.

È tardi, Chevalley: dobbiamo andare a vestirci per il pranzo. Debbo recitare per qualche ora la parte di un uomo civile».


L'indomani mattina presto Chevalley ripartì e a don Fabrizio, che aveva stabilito di andare a caccia, riuscì facile accompagnarlo alla stazione di posta. Don Ciccio Tumeo era con loro e portava sulle spalle il doppio peso dei due fucili, il suo e quello di don Fabrizio; e dentro di sé la bile delle proprie virtú conculcate.

Intravista nel livido chiarore delle cinque e mezzo del mattino, Donnafugata era deserta ed appariva disperata. Dinanzi a ogni abitazione i rifiuti delle mense miserabili si accumulavano lungo i muri lebbrosi; cani tremebondi li rimestavano con avidità sempre delusa. Qualche porta era già aperta ed il lezzo dei dormienti accumulati dilagava nella strada; al barlume dei lucignoli le madri scrutavano le palpebre tracomatose dei bambini: esse erano quasi tutte in lutto e parecchie erano state le mogli di quei fantocci sui quali s'incespica agli svolti delle trazzere. Gli uomini, abbrancato lo zappone, uscivano per cercare chi, a Dio piacendo, desse loro lavoro; silenzio atono o stridori esasperati di voci isteriche; dalla parte di Santo Spirito l'alba di stagno cominciava a sbavare sulle nuvole plumbee.

Chevalley pensava: «Questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione nuova, agile, moderna, cambierà tutto». Il Principe era depresso: «Tutto questo non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli...; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra». Si ringraziarono scambievolmente, si salutarono. Chevalley s'inerpicò sulla vettura di posta, issata su quattro ruote color di vomito. Il cavallo, tutto fame e piaghe, iniziò il lungo viaggio.

Era appena giorno; quel tanto di luce che riusciva a trapassare il coltrone di nuvole era di nuovo impedito dal sudiciume immemorabile dei finestrini. Chevalley era solo: fra urti e scossoni si bagnò di saliva la punta dell'indice, ripulí un vetro per l'ampiezza di un occhio. Guardò: dinanzi a lui, sotto la luce di cenere, il paesaggio sobbalzava, irredimibile.


Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo (1958). Capitolo IV.

Simone Sala