Metafisica della guerra Lettura di 11 minuti

La grande e la piccola guerra

Non deve sembrar strano che, dopo di aver esaminato un gruppo di tradizioni occidentali relative alla guerra sacra, cioè alla guerra come valore spirituale, ci proponiamo ora di esaminare questo stesso concetto così come è stato formulato sulla base della tradizione islamica. Infatti ai nostri scopi, come più di una volta si è rilevato, è interessante far risaltare il valore oggettivo di un principio mediante la dimostrazione della sua universalità, vale a dire della conformità al quod ubique, quod ab omnibus et quod semper. Solo per tale via si può avere la sensazione che alcuni valori hanno una portata assolutamente diversa da quel che può esser la veduta dell'un pensatore o dell'altro, non solo, ma che nella loro essenza sono superiori alle forme particolare che per manifestarsi essi hanno assunto nell'una o nell'altra tradizione storica. Più si saprà riconoscere la corrispondenza interna di tali forme e il loro unico principio, più si avrà modo di approfondire la propria tradizione, fino a possederla integralmente e a comprenderla partendo dal suo punto assolutamente originario e metafisico.

Storicamente, va del resto rilevato, che la tradizione islamica, per quel che qui essa ci interessa, risente essenzialmente dell'eredità della tradizione persiana che, come è noto, fu fra le più alte civiltà indoeuropee. La concezione originaria mazdea della religione come militia sotto il segno del «Dio di Luce» e dell'esistenza in terra come una lotta continua e senza tregua per strappare esseri e cose al dominio di un anti-dio, è il centro della visione persiana della vita e deve considerarsi la controparte metafisica e lo sfondo spirituale delle imprese guerriere che culminarono appunto nella costituzione persiana dell'impero dei «Re dei re». Dopo la caduta della grandezza persiana, echi di tali tradizioni sussisstettero nel ciclo della civiltà araba medievale, in forme un po' materializzate e talvolta esasperate, però non fino al punto, che il motivo originario di spiritualità ne restasse effettivamente cancellato.

Noi qui ci riferiremo a tradizione del genere soprattutto perché in esse viene in rilievo un concetto assai utile per lumeggiare ulteriormente l'ordine di idee esposto nei nostri ultimi articoli. Si tratta del concetto della grande guerra sacra, distinta dalla «piccola guerra», ma in pari tempo messa in relazione con quest'ultima secondo una speciale corrispondenza. La distinzione si rifà a un detto del Profeta, che tornando da una spedizione guerriera avrebbe dichiarato:

«Siamo tornati dalla piccola guerra alla grande guerra santa».

La piccola guerra qui corrisponde alla guerra esteriore, a quella cruenta che si combatte con le armi materiali contro il nemico, contro il «barbaro», contro una razza inferiore di fronte a cui si rivendica un superiore diritto o, infine, quando la vicenza è direttamente da una motivazione religiosa, contro l'«infedele». Per quanto terribili e tragiche possano esserne le vicende, per quanto immani possano esserne le distruzioni, pure questa guerra, metafisicamente, resta sempre la «piccola guerra». La «grande guerra sacra» è invece d'ordine interiore e immateriale, è la guerra che si combatte contro il nemico, o il «barbaro», o l'«infedele» che ognuno porta in sé o che vede sorgere in sé nel momento in cui egli vuole assoggettare tutto il proprio essere ad una legge spirituale. Come brama, tendenza, passionalità, istinto, debolezza e vigliaccheria interiore, il nemico che è nell'uomo naturalistico va vinto, spezzato nella sua resistenza, tratto in ceppi, reso suddito dell'uomo spirituale: questa essendo la condizione che per raggiungere l'interna liberazione, la «pace trionfale» che permette di partecipare a quel che sta di là sia da vita che da morte.

Ciò è semplicemente ascetismo — si dirà. La grande guerra santa è l'ascesi di ogni tempo. E qualcuno sarà tentato di aggiungere: è via di coloro che fuggono dal mondo e che con la scusa della lotta interiore si trasformano in un armento di poltroni pacifisti. La cosa non sta per nulla in questo modo. Dopo la distinzione fra le due guerre, la loro sintesi. È proprio alle tradizioni eroiche il prescrivere la «piccola guerra», cioè la guerra vera, cruenta, come strumento per realizzare la «grande guerra sacra»; tanto da far sì che, alla fine, le due divengano una sola e medesima cosa. È così che nell'Islam «guerra sacra» — jihad — e «via d'Iddio» sono termini usati l'uno per l'altro. Chi si batte, è sulla «via di Dio». Un detto noto e assai caratteristico di questa tradizione è:

«Il sangue degli Eroi è più vicino al Signore dell'inchiostro dei sapienti e delle preghiere dei devoti».

Anche qui, come nelle tradizioni già da noi passate in rassegna, come nella stesa ascesi romana della potenza e nella classica mors triumphalis, l'azione assurge all'esatto valore di un superamento interno e di un'approssimazione ad una vita non più mista di oscurità, di contingenza, di incertezza e di morte. In termini più concreti, le situazioni, i rischi, le prove proprie alle vicende guerriere provocano un affioramento del «nemico» interiore, il quale come istinto di conservazione, viltà ovvero crudeltà, pietà ovvero cieco scatenamento, insorge come cosa da vincere all'atto stessi di combattere contro il nemico esteriore. Da qui si vede che il punto decisivo è costituito dall'orientamento interno, dal permanere incrollabilmente in ciò che è spirito presso alla duplice lotta: tanto che non si abbia un cieco lanciarsi e tramutarsi in una specie di animale scatenato, ma, al contrario, un non lasciarsi sfuggire nessuna delle forze più profonde, un far sì che mai si sia travolti internamente, che sempre si resti sovrani e, appunto per questa sovranità, capaci di affermarsi oltre ogni limite. In una tradizione, alla quale dedicheremo il nostro prossimo articolo, questa situazione è data mediante un simbolo assai caratteristico: un guerriero vicino ad un esser divino impassibile che senza combattere spinge e guida il primo nella lotta, standogli a lato su di uno stesso carro di battaglia. È la personificazione di una dualità di principii che il vero eroe, quello che sempre promanò da sé qualcosa di sacro, sempre mantiene in sé.

Ritornando alla tradizione islamica, nel testo principale di essa si legge:

«Combatte nella via d'Iddio colui che sacrifica la vita terrena per quella dell'aldilà: poiché a chi combatte nella via di Iddio e sarà ucciso, oppure vincitore, noi daremo un possente premio».

Il presupposto metafisico per cui si prescrive:

«Combattete secondo guerra sacra coloro che vi faranno guerra». «Uccideteli dovunque li trovate e schiacciateli». «Non vi mostrate deboli né invitate alla pace», e che «la vita terrena è solo un gioco e un trastullo» e che «chi si mostra avaro, si mostra avaro solo con sé stesso».

Quest'ultimo principio è evidentemente da concepirsi come un fac-simile dell'evangelico:

«Chi vuol salvare la propria vita la perderà e chi la cederà la renderà veramente vivente»;

come è confermato da quest'altro passo:

«E che, voi che credete, quanto vi fu detto: "Scendete in campo per la guerra sacra" vi teneste pesantemente a terra? Avete preferito la vita di questo mondo a quella futura», poiché: «Attendete da noi cosa, oltre le due supreme, vittoria o sacrificio?».

È degno di attenzione anche questo passo:

«Vi è stata prescritta la guerra, benché vi dispiaccia. Ma può dispiacervi qualcosa che per voi è bene, e può piacervi ciò che è male per voi: Dio sa, mentre voi non sapete»,

da connettersi a quest'altro:

«Preferirono di essere fra quelli che rimasero: un marchio è inciso nei loro cuori, sì che non comprendono. Ma l'Apostolo e coloro che credono con lui combattono con quanto essi hanno e con le loro stesse persone: a loro i beni — ed essi son quelli che prospereranno — nella grande felicità».

Qui noi non abbiamo dunque una specie di amor fati, un misterioso intuire, evocare e risolvere eroicamente un proprio destino, nell'intima certezza che quando l'«intenzione giusta» è presente, quando, vinta ogni inerzia e ogni viltà, lo slancio oltre la propria e l'altrui vita, oltre la felicità e la sciagura, è guidato appunto dal senso di un destino spirituale e dalla sete di una esistenza assoluta, si è dato nascita ad una forza che non potrà mancare il fine supremo. Che allora la crisi di una morte tragica e eroica divenga una irrilevante contingenza, ciò, in termini religiosi, così viene espresso:

«Di coloro che resteranno uccisi nella via d'Iddio la realizzazione non andrà perduta. Dio li guiderà e disporrà il loro animo. Li farà quindi entrare nel paradiso che egli ha loro rivelato».

Come da un cammino circolare, il lettore così viene ricondotto alle stesse idee che nei nostri precedenti articoli abbiamo esaminate sulla base di tradizioni sia classiche, sia nordico-medievali: alle idee, cioè, di una immortalità privilegiata riservata agli eroi, che essi soli, secondo Esiodo, passano ad abitare simboliche isole, ove vive una immagine della stessa esistenza luminosa e intangibile degli Olimpici.

Ma nella tradizione islamica sono anche frequenti i riferimenti all'idea, che alcuni guerrieri caduti nella «guerra sacra» in verità non sarebbero mai morti, e in un senso per nulla simbolico, e nemmeno da riferirsi a stati sovramondani disgiunti dalle energie e dai destini dei viventi. Non è possibile entrare in questo dominio, che è piuttosto misterioso, e bisognoso di riferimenti che non si confanno alla natura del presente articolo. Certo è che ancora oggi, e proprio in Italia, hanno riacquistato particolare forza suggestiva i riti, con i quali una comunità guerriera dichiara «presenti» i compagni più eroicamente caduti. Chi parte dall'idea che tutto ciò che, per un processo di involuzione, oggi ha finito con l'assumere un carattere soltanto allegorico e al più etico, aveva originariamente un valore di realtà, e ogni rito era azione e non mera «cerimonia» — per costui questi riti guerrieri di oggi potrebbero forse servire come materia di meditazione, ed egli potrebbe forse avvicinarsi al mistero racchiuso nell'insegnamento già citato: cioè all'idea di eroi che veramente mai son morti, ed altresì all'idea di vincitori che, ad immagine dello stesso Cesare romano, permarrebbero come «vincitori perpetui» al centro di una stirpe.


Julius Evola, Metafisica della guerra (1935). Articolo 4 — La grande e la piccola guerra.

Simone Sala