Saggio sulla disuguagli... Lettura di 30 minuti

Le ineguaglianze etniche non sono il risultato delle istituzioni

L'idea di una ineguaglianza nativa, originale, innegabile e permanente fra le diverse razze è, nel mondo, una delle opinioni più diffuse e accettate fin dalla più remota antichità; e dato il primitivo isolamento delle tribù e degli agglomerati delle origini, e quel ritiro nel proprio ambito che essi hanno praticato in un'epoca più o meno lontana e da cui nella maggior parte dei casi non sono mai usciti, non c'è proprio ragione di stupirne. Tranne ciò che è avvenuto nei nostri tempi più moderni, tale nozione è servita di base a quasi tutte le teorie di governo. Non c'è popolo, grande o piccolo, che non abbia mosso i primi passi facendone la sua prima massima di Stato. Il sistema delle caste e delle nobiltà, quello delle aristocrazie, fin dove vengono fondate su prerogative di nascita, non hanno altra origine; il diritto di primogenitura, supponendo l'eccellenza del primogenito e dei suoi discendenti, non ne è altresì che un derivato. Con questa dottrina concordano la repulsione per lo straniero e la superiorità che ogni nazione si attribuisce nei confronti dei vicini. Non è se non con il progressivo mescolarsi o fondersi dei gruppi, ormai ingranditi, civilizzati e capaci di considerarsi con maggiore benevolenza data la loro reciproca utilità, che si osserva in loro questa massima assoluta dell'ineguaglianza, preceduta dalla massima dell’ostilità delle razze, battuta in breccia e discussa. Quando la maggioranza dei cittadini dello Stato si sente in seguito scorrere nelle vene un sangue misto, trasformando in verità universale e assoluta ciò che non è reale se non nel suo caso, essa si sente chiamata ad affermare che tutti gli uomini sono uguali. Una lodevole ripugnanza per l’oppressione, il legittimo orrore che ispira l’abuso della forza gettano allora, in tutte le intelligenze, un’ombra assai cupa sul ricordo delle razze un tempo dominanti e che, dato che così vanno le cose nel mondo, non hanno certo mancato fino a un certo punto di legittimare parecchie accuse. Dal perorare contro la tirannia si passa alla negazione delle cause naturali di quella superiorità che si sta insultando; la si dichiara non solo perversa, ma anche usurpatrice; si nega, e a gran torto, che certe attitudini siano necessariamente e fatalmente l’eredità esclusiva di questa o quella discendenza; infine, più un popolo è composto di elementi eterogenei, più si compiace nel proclamare che le più diverse facoltà sono possedute allo stesso grado, o possono esserlo, da tutte le frazioni della specie umana senza esclusione alcuna. Questa teoria che è tutt’al più sostenibile per ciò che li concerne, i ragionatori meticci la applicano all’insieme delle generazioni che sono comparse, compaiono e compariranno sulla terra, e un giorno o l’altro finiscono col riassumere i loro sentimenti in questa frase che, come l’otre di Eolo, racchiude tante tempeste: «Tutti gli uomini sono fratelli!»

Ecco l'assioma politico. Vogliamo l'assioma scientifico? «Tutti gli uomini», dicono i paladini dell'eguaglianza umana, «sono provvisti di strumenti intellettuali simili, della stessa natura, dello stesso valore, della stessa portata.» Non sono queste le parole esatte, forse, ma almeno il senso è questo. Dunque il cervelletto dell'urone contiene un germe di spirito assolutamente simile a quello dell'inglese o del francese! Ma perché mai, allora, nel corso dei secoli non ha scoperto né la stampa né il vapore? Io sarei in diritto di domandargli, a quell'urone, come mai, se egli è uguale ai nostri compatrioti, i guerrieri della sua tribù non hanno espresso né un Cesare né un Carlo Magno; e per quale inspiegabile negligenza i suoi cantori e i suoi maghi non sono mai diventati né Omero né Ippocrate. A questa difficoltà per solito si risponde sottolineando l’influenza sovrana dell’ambiente. Secondo questa dottrina un’isola non riuscirà mai a vedere, quanto a prodigi sociali, ciò che invece conoscerà un continente; al nord si sarà ben diversi da ciò che si è al sud; i boschi non permetteranno certi sviluppi che invece favorirà l’estendersi della pianura. Che altro posso dire? L’umidità di una palude farà sbocciare una civiltà che l’arido Sahara avrebbe infallibilmente soffocata. Per ingegnose che siano queste piccole ipotesi, si trovano contro l’autorità dei fatti. Nonostante il vento, la pioggia, il freddo, il caldo, la sterilità, l’abbondanza copiosa, ovunque il mondo ha visto di volta in volta fiorire, e sulle stesse terre, barbarie e civiltà. L’abbrutito fellah si crogiola allo stesso sole che bruciava il potente sacerdote di Menfi; il dotto professore di Berlino insegna sotto lo stesso cielo inclemente che un giorno vide le miserie del selvaggio finnico.

La cosa più curiosa è che l'opinione egualitaria ammessa dalla maggioranza e da questa introdotta nelle nostre istituzioni e nei nostri costumi, non ha trovato forza bastante per detronizzare l'evidenza; e che la gente più convinta della sua verità compie quotidiani atti d'omaggio al sentimento contrario. Nessuno può fare a meno di constatare ad ogni piè sospinto gravi differenze fra le nazioni, e lo stesso linguaggio usuale le riconosce con la più ingenua contraddizione. In ciò non si fa che imitare ciò che si è praticato in epoche non meno persuase delle nostre, e per le stesse cause, circa l'eguaglianza assoluta delle razze.

Accanto al dogma liberale della fraternità ogni nazione ha sempre continuato ad attribuire, al nome degli altri popoli, certe qualifiche e certi epiteti che indicavano delle differenze. Il romano d'Italia chiamava graeculus il romano di Grecia e gli attribuiva il monopolio della loquacità vanitosa e della mancanza di coraggio. Si faceva beffe del colono di Cartagine e pretendeva di riconoscerlo fra mille per via del suo spirito litigioso e della sua malafede. Gli alessandrini passavano per spiritosi, insolenti e sediziosi. Nel Medioevo i monarchi anglonormanni bollavano i loro sudditi galli di leggerezza e di incostanza. Oggi, chi non ha mai sentito sottolineare le caratteristiche distintive del tedesco, dello spagnolo, dell'inglese e del russo? Non è per me la sede, qui, per pronunciarmi sull'esattezza di tali giudizi. Osservo soltanto che essi esistono e che l'opinione corrente li accetta. Ecco dunque che mentre da una parte le famiglie umane sono dette eguali e d'altra parte le une sono considerate frivole e le altre posate; queste avide di guadagno, quelle facili alla spesa; qualcuna energicamente dedita alla lotta, parecchie invece econome di sforzi e attente alla loro vita, balza evidente agli occhi che a nazioni tanto diverse tocchino ben diversi destini, destini incomparabili; insomma, diciamolo, destini quanto mai ineguali.

I più forti avranno, nella tragedia del mondo, la parte di re e di padrone. I più deboli si contenteranno di basse bisogne.

Non credo che ai nostri giorni si sia fatto l'accostamento fra le idee generalmente ammesse circa l'esistenza di una speciale caratteristica in ogni popolo e la convinzione non meno generale che tutti i popoli siano eguali. Eppure è una contraddizione ben evidente; è flagrante e tanto più grave in quanto i partigiani stessi della democrazia non sono secondi agli altri nel vantare la superiorità dei sassoni dell'America del Nord su tutte le nazioni dello stesso continente. È vero che essi attribuiscono le alte prerogative dei loro favoriti all'esclusiva influenza della forma di governo. Tuttavia essi non negano, a quanto io sappia, l'innata e particolare disposizione dei compatrioti di Penn e di Washington a stabilire in ogni luogo da loro toccato istituzioni liberali e, ciò che maggiormente conta, a saperle conservare. Questa forza di persistenza non è forse, domando, una ben importante prerogativa concessa a questo particolare ramo della famiglia umana, prerogativa tanto più preziosa in quanto la maggior parte dei gruppi che un tempo hanno popolato o ancora popolano l'universo sembrano esserne privi?

Non pretendo di godermi senza lottare la vista di questa inconseguenza. È a questo punto, senza dubbio, che i partigiani dell'eguaglianza salteranno fuori a obiettarmi la potenza delle istituzioni e dei costumi; è a questo punto che essi diranno, ancora una volta, quanto potentemente influisca sul merito e sullo sviluppo di una nazione l'essenza del governo grazie alla sua sola e propria virtù, e quanto altresì influiscano il dispotismo o la libertà. Ma è proprio qui che anch'io contesterò la forza di tale argomento.

Le istituzioni politiche non possono scegliere che fra due origini: o derivano dalla nazione che deve vivere sotto la loro regola, oppure, inventate da un popolo ricco d'influenza, esse vengono da tale Stato imposte ad altri Stati caduti nella sua sfera d'azione.

Con la prima ipotesi non ci sono difficoltà. Evidentemente il popolo ha calcolato le sue istituzioni in base ai suoi istinti e alle sue necessità; ha fatto attenzione a non statuire alcunché capace di dar noia a queste o a quelli; e se per disattenzione o goffaggine lo ha fatto, ben presto il disagio che ne risulta lo induce a correggere quelle leggi e a porle in una più perfetta concordanza con il loro scopo. In ogni paese autonomo si può dire che la legge emani sempre dal popolo; non che egli abbia costantemente la facoltà di promulgarla in modo diretto, ma per essere buona bisogna che essa venga modellata sulle sue vedute e sia tale che il popolo stesso avrebbe potuto immaginarla qualora fosse stato bene informato. Se a prima vista qualche saggio legislatore appare come l'unica sorgente della legge, si guardi meglio e ben presto ci si convincerà che proprio per effetto della sua saggezza, il venerabile personaggio si limita a esprimere i suoi oracoli sotto dettato della sua nazione. Giudizioso come Licurgo, non ordinerà nulla che non sia accettabile da parte del doro di Sparta; teorico come Dracone, creerà un codice che ben presto verrà modificato o abrogato dallo ionio di Atene, incapace come tutti i figli di Adamo di conservare a lungo una legislazione che sia estranea alle sue autentiche e naturali tendenze. L'intervento di un genio superiore in questa grande impresa dell'invenzione delle leggi, non è che uno speciale manifestarsi dell'illuminata volontà di un popolo; e qualora si tratti del prodotto isolato delle fantasticherie di un individuo, non c'è popolo che possa accontentarsene a lungo. Non si può dunque ammettere che le istituzioni in tal modo trovate e modellate dalle razze, abbiano fatto le razze così come le vediamo. Le istituzioni sono effetti, non cause. La loro influenza è evidentemente grande: esse conservano il genio nazionale, gli aprono strade dinanzi, gli indicano lo scopo e anche, fino a un certo punto, riscaldano i suoi istinti mettendogli in mano i migliori strumenti di azione; esse però non creano il loro creatore, e mentre possono vigorosamente contribuire ai suoi successi aiutandolo a sviluppare le sue qualità innate, esse non potrebbero che miseramente fallire pretendendo di ingrandire troppo il cerchio o di mutarlo. Insomma, esse non possono l'impossibile.

Le false istituzioni e i loro effetti hanno tuttavia sostenuto un ruolo importante nel mondo. Quando Carlo I, malauguratamente consigliato dal conte di Strafford, voleva piegare gli inglesi al governo assoluto, tanto il re quanto il suo ministro camminavano sul sanguinoso e scivoloso terreno delle teorie. Quando da noi i calvinisti sognavano di un'amministrazione che fosse insieme aristocratica e repubblicana, e si sforzavano di imporla con le armi, si ponevano ugualmente fuori dal vero.

Quando il reggente pretese di darla vinta ai cortigiani sottomessi nel 1652, e provò ad applicare quel governo d'intrigo che il suo coadiutore e i suoi amici avevano auspicato, i suoi sforzi non piacquero a nessuno e riuscirono a ferire ugualmente la nobiltà, il clero, il parlamento e il terzo stato. Soltanto qualche esattore se ne rallegrò. Ma quando Ferdinando il Cattolico istituì i suoi terribili e necessari mezzi di distruzione contro i mori di Spagna; quando Napoleone ristabilì in Francia la religione, lusingò lo spirito militare, organizzò il potere in un modo che fu insieme protettore e restrittivo, l'uno e l'altro di quei potentati avevano ben ascoltato e compreso il genio dei loro sudditi, e stavano costruendo su un terreno pratico. In una parola, le false istituzioni che sovente appaiono bellissime sulla carta, sono quelle che, per non essere conformi alle qualità e ai difetti nazionali, non convengono affatto a un dato Stato, mentre potrebbero essere in grado di fare la fortuna di un paese vicino. Esse non creano se non disordine e anarchia, prendessero pure a modello la legislazione degli angeli. Tutto al contrario le altre che da questo o da quel punto di vista, e magari in modo assoluto, il teorico e il moralista possono biasimare, sono buone per le ragioni contrarie. Gli spartani erano scarsi di numero, grandi di cuore, ambiziosi e violenti: leggi false non ne avrebbero fatto che degli scialbi bricconi; Licurgo ne fece degli eroici briganti.

Non si abbia il minimo dubbio. Nata com'è la nazione prima della legge, la legge ne deriva e ne porta rimpronta prima di darle la propria. Le modificazioni che il tempo porta nelle istituzioni ne sono, altresì, una prova essenziale.

È stato detto poco sopra che man mano che i popoli si civilizzano, s'ingrandiscono, acquistano potenza, il loro sangue si mescola e i loro istinti subiscono graduali alterazioni. Assumendo così attitudini differenti, trovano impossibile adattarsi a leggi che convenivano invece ai loro predecessori. Altrettanto impossibili sono i loro costumi e le loro tendenze per le nuove generazioni ed ecco ben presto profondi mutamenti nelle istituzioni. Tali mutamenti li vediamo farsi più frequenti e più profondi man mano che la razza si modifica ancora mentre, finché le stesse popolazioni erano in più stretta parentela con i primi ispiratori dello Stato, essi erano più rari e più graduati. In Inghilterra, fra tutti i paesi d'Europa quello in cui le modificazioni del sangue sono state più lente e finora meno varie, persistono le istituzioni del Trecento e del Quattrocento alla base dell'edificio sociale. Vi si ritrova, pressoché nel suo antico vigore, l’organizzazione comunale dei Plantageneti e dei Tudor, il loro stesso modo di creare la nobiltà e di mescolarla al governo; lo stesso rispetto per l’antichità delle famiglie unito allo stesso gusto per i parvenus di merito. Tuttavia, poiché dopo Giacomo I e soprattutto dopo l’unione della regina Anna, il sangue inglese ha sempre più la tendenza a mescolarsi con quello di Scozia e d’Irlanda, e altre nazioni hanno sia pure impercettibilmente contribuito ad alterare la purezza della discendenza, ne risulta che le innovazioni si sono fatte al giorno d’oggi più frequenti di un tempo, pur restando sempre abbastanza fedeli al primitivo spirito della costituzione.

Ben altrimenti numerosi e variati sono stati, in Francia, i matrimoni etnici. È perfino successo che in seguito a bruschi sovvertimenti il potere passasse da una razza all'altra. E così ci sono stati, nella vita sociale, piuttosto dei cambiamenti che delle modificazioni, e questi cambiamenti sono stati tanto più gravi quanto maggiore era la diversità fra i gruppi che si succedevano al potere. Finché il nord della Francia continuò ad essere preponderante nella politica del paese, la feudalità, o per meglio dire i suoi resti informi, si difesero molto bene, e lo spirito municipale restò saldo con loro. Dopo l'espulsione degli inglesi nel Quattrocento, le province centrali, molto meno germaniche delle contrade oltre-Loira, e che essendo da poco riuscite a restaurare l'indipendenza nazionale sotto l’egida di Carlo VII vedevano naturalmente il loro sangue gallo-romano predominare nei consigli e negli accampamenti, imposero quel gusto della vita militare e delle conquiste esterne che era così caratteristico della razza celtica, e quell’amore dell’autorità che era infuso nel sangue romano. Durante il Cinquecento esse prepararono largamente il terreno sul quale i compagni aquilani di Enrico IV, meno celtici e ancora più romani, nel 1599 vennero a porre un’altra e più grossa pietra del potere assoluto. In seguito, avendo Parigi finalmente assunto il dominio in seguito alla concentrazione favorita dal genio meridionale, quella Parigi la cui popolazione è senza dubbio un concentrato dei più svariati campioni etnici non ebbe più motivo di comprendere, amare e rispettare qualsivoglia tradizione o tendenza speciale; cosicché questa grande capitale, questa torre di Babele, rompendo con il passato sia di Fiandra sia del Poitou sia della Linguadoca, attrasse la Francia in sempre più numerose sperimentazioni di dottrine che erano quanto mai estranee ai suoi antichi costumi.

Non si può dunque ammettere che le istituzioni trasformino i popoli in ciò che ci appaiono, quando sono invece proprio i popoli che le hanno inventate. Ma vanno ugualmente, le cose, nella seconda ipotesi, ossia quando una nazione riceve un codice da mani straniere provviste della potenza necessaria per farglielo accettare con le buone o con le cattive?

Di simili tentativi non mancano esempi. Non saprei trovarne, a dire la verità, che siano stati messi in opera su vasta scala dai governi veramente politici dell'antichità o dei tempi moderni; la loro saggezza non si è mai applicata a trasformare il fondo stesso delle grandi moltitudini. I romani erano troppo abili per dedicarsi a esperimenti tanto pericolosi. Non li aveva tentati Alessandro prima di loro; e i successori di Augusto, convinti per istinto o ragionamento della vanità di simili sforzi, si accontentarono, come il vincitore di Dario, di regnare su un vasto mosaico di popoli che conservavano tutti le loro abitudini, i loro costumi, le loro leggi, i loro particolari sistemi di amministrazione e di governo, e che per lo più (almeno fin quando restarono, per razza, abbastanza identici a se stessi) non accettarono che prescrizioni fiscali o provvedimenti militari in comune con i loro consoggetti.

C'è però una circostanza che non bisogna sottovalutare. Parecchi dei popoli asserviti ai romani avevano nei loro codici dei punti talmente discordanti con il sentimento dei padroni, che a questi ultimi era impossibile tollerarne l'esistenza: come i sacrifici umani dei druidi, condannati infatti dalle più severe proibizioni. Ebbene, con tutta la loro potenza i romani non riuscirono mai a estirpare completamente riti tanto barbari. Nella regione di Narbona la vittoria fu facile: la popolazione gallica era stata quasi sostituita da coloni romani; ma nel centro, presso le tribù più intatte, la resistenza fu ostinata, e nella penisola bretone dove, nel quarto secolo, una colonia portò d'Inghilterra i vecchi costumi con il vecchio sangue, le tribù continuarono, per patriottismo, per fedeltà alle loro tradizioni, a sgozzare uomini sugli altari tanto sovente quanto osarono farlo. La più alacre sorveglianza non riusciva a strappargli di mano il coltello o la torcia sacra. Tutte le rivolte cominciavano con la restaurazione di questo terribile rito del culto nazionale, e il cristianesimo, ancora indignato vincitore di un politeismo privo di morale, presso gli armoricani, venne a urtarsi, atterrito, contro superstizioni più ripugnanti ancora. Non riuscì a distruggerle se non dopo lunghissimi sforzi se nel Seicento i massacri dei naufraghi e l’uso del diritto sui relitti marini sussistevano in tutte le parrocchie della costa dove il sangue kimrico si era conservato puro. Il fatto è che questi barbari costumi rispondevano agli istinti e agli indomabili sentimenti di una razza che non essendo stata sufficientemente mescolata non aveva avuto fino ad allora ragioni determinanti per cambiare opinioni.

Questo fatto è degno di riflessione; ma i tempi moderni ci presentano soprattutto esempi d'istituzioni imposte e non subite. Un rilevante carattere della civiltà europea è la sua intolleranza, che deriva dalla coscienza che essa ha del proprio valore e della propria forza. Si trova, nel mondo, o di fronte a indubbie barbarie o accanto ad altre civiltà. Tratta le une e le altre con quasi pari disprezzo, e vedendo ostacoli alle sue conquiste in tutto ciò che esula da se stessa, è quanto mai incline a esigere dai popoli una completa trasformazione. Tuttavia gli spagnoli, gli inglesi e gli olandesi, e anche noi talvolta, non abbiano osato abbandonarci troppo completamente agli impulsi del genio innovatore, per poco che ci si trovasse di fronte a masse un po' considerevoli, e abbiamo così imitato la forzata discrezione dei conquistatori dell'antichità. L’Oriente e l’Africa, sia settentrionale sia occidentale, sono irrefragabili testimoni che le più illuminate nazioni non riescono a imporre ai popoli conquistati istituzioni che siano antipatiche alla loro natura. Ho già ricordato come l’India inglese continui il suo secolare modo di vita sotto le leggi che un tempo si è date. I giavanesi, benché molto sottomessi, sono lontanissimi dal cedere a istituzioni che somiglino a quelle olandesi. Continuano a vivere di fronte ai loro padroni come vivevano in libertà e dal Cinquecento, quando ebbe inizio l’azione europea nel mondo orientale, non si vede come essa abbia minimamente influito sui costumi dei meglio domati fra i suoi tributari.

Ma non tutti i popoli vinti sono così forti di numero da far sì che il padrone europeo sia indotto a frenarsi. Ci sono popoli sui quali ha dovuto pesare, in ausilio a quella della persuasione, tutta la potenza della spada. Si è voluto cambiare decisamente il loro modo di esistenza, dargli istituzioni che noi sappiamo essere buone e utili. Ci si è riusciti?

L'America ci offre, al proposito, il più ricco campo sperimentale. In tutto il sud, a che risultati è giunta? A sradicare gli antichi imperi, indubbiamente, non a illuminare le popolazioni; non ha creato uomini che siano simili ai loro precettori.

Nel nord, con procedimenti differenti, i risultati sono stati altrettanto negativi; che dico? sono stati ancora più nulli quanto a benefica influenza e più calamitosi dal punto di vista dell'umanità, giacché almeno gli indiani spagnoli si moltiplicano notevolmente; hanno perfino trasformato il sangue dei loro vincitori che così sono scesi al loro livello, mentre i pellirosse degli Stati Uniti, neutralizzati dall'energia anglosassone, sono morti al contatto. Quel poco che ne resta ancora va scomparendo ogni giorno di più, e scompare tanto incivilizzato e incivilizzabile quanto lo furono i padri.

Le osservazioni che possiamo fare in Oceania portano alle stesse conclusioni: le tribù aborigene si vanno estinguendo ovunque. Qualche volta si riesce a strappargli le armi, a impedirgli di nuocere; ma non le si cambia. Ovunque, dove l'europeo è padrone, esse non si mangiano più a vicenda ma si ingozzano di acquavite, e questo nuovo modo di abbrutirsi è tutto ciò che il nostro spirito iniziatore riesce a fargli amare. Nel mondo ci sono due governi formati da popoli stranieri alle nostre razze, su modelli forniti da noi: il primo funziona alle isole Sandwich, l'altro a San Domingo. L'analisi che faremo di questi due Stati darà l’ultimo tocco alla nostra dimostrazione circa l’impotenza di ogni tentativo che voglia imporre a un popolo istituzioni estranee al suo genio.

Alle isole Sandwich il sistema rappresentativo brilla in tutto il suo splendore. C'è una camera alta, una camera bassa, un ministero che governa, un re che regna; non manca nulla. Ma tutto ciò non è che decorazione. Il rodaggio indispensabile della macchina, quello che la mette in moto, è il corpo dei missionari protestanti. Senza di loro, re, pari e deputati, poiché ignorano il cammino da seguire, cesserebbero ben presto di funzionare. Ai soli missionari spetta l'onore di trovare le idee, di proporle e di farle accettare, sia per il credito di cui godono presso i neofiti sia, all'occorrenza, con le minacce. Tuttavia, se i missionari avessero soltanto il re e le camere come strumento della loro volontà, credo proprio che dopo aver lottato per un po’ contro l’inettitudine dei loro scolari, si troverebbero obbligati ad assumere una parte troppo grande, troppo diretta e quindi troppo evidente nella condotta degli affari. Hanno ovviato a questo inconveniente mediante un ministero semplicemente composto di uomini di razza europea. Così gli affari, all’atto pratico, vengono trattati e decisi fra la missione protestante e i suoi agenti; il resto è soltanto per figura.

Quanto al re Kamehameha III, è un sovrano di merito, a quanto pare. Ha rifiutato, per quanto lo riguarda, il tatuarsi la faccia, e pur non essendo ancora riuscito a convertire tutti i suoi cortigiani, prova già la legittima soddisfazione di vedere che si limitano a tracciarsi leggeri disegni sulla fronte e sulle gote. Il grosso della nazione, nobili di campagna e gente del popolo, su questo punto come su altri persiste nelle vecchie idee. Svariate cause, tuttavia, portano ogni giorno alle isole Sandwich un rinforzo di popolazione europea. La vicinanza della California fa del regno hawaiiano un punto quanto mai interessante per l'energia chiaroveggente delle nostre nazioni. I balenieri disertori e i marinai refrattari della marina militare non sono più, laggiù, i soli coloni di razza bianca: vi accorrono mercanti, speculatori, avventurieri di ogni genere, costruiscono case e vi si fissano. La razza indigena, invasa, a poco a poco si mescola e si perde. Mi domando se il governo rappresentativo e indipendente non cederà il passo, ben presto, a una semplice amministrazione delegata che faccia capo a qualche grande potenza straniera; ciò che mi pare chiaro è che le istituzioni importate finiranno per stabilirsi solidamente in quel paese; e, sincronismo necessario, il giorno del loro trionfo segnerà la rovina totale degli indigeni.

A San Domingo l'indipendenza è completa. Non ci sono missionari che esercitino un'autorità velata e assoluta; non ombra di ministero straniero che funzioni secondo lo spirito europeo: tutto è lasciato all'ispirazione della stessa popolazione la quale, per la parte spagnola, è composta di mulatti. Non mi soffermerò su di loro. È gente che bene o male sembra imitare ciò che la nostra civiltà ha di più facile: come tutti i meticci essi tendono a fondersi a quel ramo della loro genealogia che gli fa maggiormente onore; e fino a un certo punto sono dunque suscettibili di mettere in pratica le nostre usanze. Non è quindi presso di loro che bisogna studiare la questione assoluta. Passiamo dunque le montagne che separano la repubblica dominicana dallo Stato di Haiti.

Qui ci troviamo di fronte a una società le cui istituzioni sono non soltanto simili alle nostre, bensì addirittura derivanti dalle più recenti massime della nostra saggezza politica. Tutto ciò che da sessant'anni in qua il più raffinato liberalismo ha fatto proclamare nelle assemblee deliberanti d'Europa, tutto ciò che i pensatori più amici dell'indipendenza e della dignità dell’uomo hanno potuto scrivere, ogni dichiarazione di diritti e di princìpi, hanno trovato un’eco sulle rive dell’Artibonite. Nulla di africano ha sopravvissuto nelle leggi scritte; i ricordi della terra camitica sono ufficialmente scomparsi dalle menti; il linguaggio ufficiale non ne ha mai tradito la traccia; le istituzioni, ripeto, sono completamente europee. Vediamo ora come si adattano ai costumi.

Che contrasto! I costumi? Li vediamo tanto depravati, brutali e feroci che nel Dahomey o nel paese dei fellata. Lo stesso barbarico amore degli ornamenti si allea alla stessa indifferenza per l'eleganza della forma; il bello sta nel colore, e purché un vestito sia rosso scarlatto e guarnito di oro falso, il gusto non si preoccupa troppo se ci sono, nella stoffa, soluzioni di continuità; quanto alla pulizia, nessuno ci pensa. Si vuole, in quel paese, avvicinare un alto funzionario? Si viene introdotti nella stanza di un enorme negro rovesciato su un pancone di legno, con la testa avviluppata in un lurido fazzoletto a brandelli, coperto di un cappello a punte dai ricchi galloni d'oro. Un'immensa sciabola pende dal fianco di questo ammasso di membra; l’abito ricamato non reca traccia di panciotto; il generale calza pantofole. Volete interrogarlo, cercare di penetrare nel suo spirito per rendervi conto della natura delle idee che lo occupano? Troverete la più incolta intelligenza unita all’orgoglio più selvaggio, a cui corrisponde un’altrettanto profonda e incurabile trascuratezza. Se un uomo simile apre la bocca, vi sciorinerà tutti i luoghi comuni di cui i giornali ci riempiono la testa da mezzo secolo. Quel barbaro li sa a memoria; ha altri interessi, istinti diversissimi, ma non ha acquisito altre nozioni. Parla come il barone di Holbach, ragiona come Grimm, e in fondo non ha altra seria preoccupazione che di masticare tabacco, bere alcool, sventrare i nemici e tenersi buoni gli stregoni. Il resto del tempo dorme.

Lo Stato è diviso in due frazioni non separate da incompatibilità di dottrina ma di pelle: i mulatti se ne stanno da una parte, i negri dall'altra. I mulatti possiedono una maggiore intelligenza, senza dubbio, e uno spirito più aperto alla concezione. L'ho già fatto osservare per i dominicani: il sangue europeo ha modificato la natura africana, e uomini del genere potrebbero diventare utili cittadini altrove, qualora venissero fusi in una massa bianca, con buoni modelli costantemente sotto gli occhi. Disgraziatamente, per ora, la supremazia del numero e della forza appartiene ai negri. I quali, benché soltanto i loro nonni, tutt'al più, abbiano conosciuto la terra d’Africa, ne subiscono ancora completamente l’influenza; la loro gioia suprema è la pigrizia; la loro suprema ragione, l’eccidio. Fra i due partiti che dividono l’isola non ha mai smesso di regnare l’odio più intenso. La storia di Haiti, della democratica Haiti, non è che una lunga lista di massacri: massacri di mulatti da parte dei negri, quando i negri sono i più forti; dei negri da parte dei mulatti, quando i mulatti hanno il potere nelle mani. Per filantropiche che possano essere, le istituzioni non possono farci nulla, se la dormono, impotenti, sulla carta dove sono state scritte; ciò che regna senza freno è il vero spirito delle popolazioni. Conformemente a una legge naturale indicata poco sopra, la varietà nera, che appartiene a quelle delle tribù umane che non sono atte a civilizzarsi, nutre il più profondo orrore per tutte le altre razze; e così vediamo i negri di Haiti respingere energicamente i bianchi, proibendogli l’ingresso nel loro territorio; vorrebbero similmente escludere i mulatti, e mirano a sterminarli. L’odio per lo straniero è il movente principale della politica locale. Poi, conseguentemente all’organica pigrizia della specie, l’agricoltura è ridotta a zero, l’industria non esiste nemmeno di nome, il commercio si va riducendo di giorno in giorno, i deplorevoli progressi della miseria impediscono alla popolazione di riprodursi mentre riescono continuamente a diminuirla le guerre continue, le rivolte, le esecuzioni militari. Il risultato inevitabile e pressoché imminente di una tale situazione sarà di trasformare in un deserto un paese la cui fertilità e le cui risorse naturali un tempo hanno arricchito generazioni e generazioni di piantatori, e di abbandonare alle capre selvagge le pianure feconde, le magnifiche valli e i poggi grandiosi della regina delle Antille.

Facciamo il caso in cui le popolazioni di quel disgraziato paese avessero potuto agire conformemente allo spirito delle razze da cui hanno preso origine; in cui, non trovandosi sotto l'inevitabile protettorato e sotto l'impulso di dottrine straniere, avessero formato in assoluta libertà e secondo i loro soli istinti la propria società. Allora si sarebbe verificata, più o meno spontaneamente, mai però senza qualche violenza, una separazione fra la gente dei due colori.

I mulatti avrebbero abitato le rive del mare per tenersi sempre, con gli europei, nei rapporti che vanno auspicando. Sotto la direzione degli europei li avremmo visti mercanti, soprattutto mediatori, avvocati, medici, stringere sempre più lusinghieri legami, mescolarsi e migliorarsi gradualmente e perdere, in determinate proporzioni, tanto il carattere quanto il sangue africano.

I negri si sarebbero ritirati nell'interno, e vi avrebbero formato piccole società analoghe a quelle che creavano un tempo gli schiavi alla macchia nella stessa San Domingo, alla Martinica, in Giamaica e soprattutto a Cuba, il cui vasto territorio e le cui profonde foreste erano garanzia di più certo rifugio. Laggiù, in mezzo ai prodotti così vari e brillanti della vegetazione antillana, il negro americano abbondantemente provvisto di quei mezzi d'esistenza che prodiga, con così poca spesa, una terra così opulenta, sarebbe ritornato in piena libertà a quell'organizzazione dispoticamente patriarcale che è tanto naturale a quei loro congeneri che i vincitori mussulmani dell’Africa non hanno ancora sottomesso. L’amore dell’isolamento sarebbe stato, insieme, causa e risultato di queste istituzioni. Tribù in via di formazione sarebbero diventate in capo a qualche tempo straniere ed ostili le une alle altre. Qualche guerra locale sarebbe stata il solo avvenimento politico dei diversi cantoni e l’isola selvaggia, mediocremente popolata e pessimamente coltivata, avrebbe tuttavia conservato una doppia popolazione, ora condannata a sparire per colpa della funesta influenza di leggi e istituzioni prive di rapporto con la struttura e l’intelligenza dei negri, con i loro interessi e con i loro bisogni.

Questi esempi di San Domingo e delle isole Sandwich sono abbastanza conclusivi. Tuttavia, prima di abbandonare definitivamente quest'argomento, non posso resistere al desiderio di accennare ancora a un altro fatto analogo, il cui particolare carattere rafforza parecchio la mia opinione. Ho invocato a testimonianza uno Stato in cui le istituzioni, imposte da predicatori protestanti, non sono che un calco assai puerile dell'organizzazione britannica; poi ho parlato di un governo materialmente libero ma intellettualmente legato a teorie europee, e che ha dovuto mettere in pratica l'applicazione di tali teorie: da cui, come conseguenza, la morte per le disgraziate popolazioni haitiane. Ecco ora un esempio di tutt’altra natura, che mi viene offerto dai tentativi dei padri gesuiti per civilizzare gli indigeni del Paraguay.

Questi missionari, grazie all'elevatezza della loro intelligenza e al loro bel coraggio, hanno ispirato l'ammirazione universale, e i più dichiarati nemici del loro ordine non hanno creduto di potergli rifiutare un ampio tributo di elogi. Difatti, se istituzioni derivate da uno spirito estraneo a una certa nazione hanno mai avuto qualche probabilità di successo, sono state senz'altro quelle, fondate sulla potenza del sentimento religioso e puntellate da tutto quanto il genio dell’osservazione, tanto giusto quanto fine, aveva potuto trovare di idee degne di venire assimilate. I gesuiti si erano andati persuadendo, opinione del resto quanto mai diffusa, che la barbarie sta alla vita dei popoli come l'infanzia a quella degli individui, e che più una nazione si mostra selvaggia e incolta più è giovane.

Per condurre i loro neofiti all'adolescenza, essi li trattarono dunque da bambini, e crearono per loro un governo dispotico tanto risoluto nelle sue vedute e volontà, quanto dolce e affettuoso nelle sue forme. Le tribù d'America hanno generalmente tendenze repubblicane, e la monarchia o l'aristocrazia, rare laggiù, non compaiono mai se non in casi molto limitati. Le disposizioni native dei guarani, alle quali i gesuiti avevano appena fatto appello, su questo punto non contrastavano con quelle degli altri indigeni. Tuttavia, per una fortunata circostanza, quei popoli davano prova di un’intelligenza relativamente sviluppata, di una ferocità forse un po’ meno accentuata di taluni loro vicini, e di una certa facilità a concepire nuovi bisogni. Centoventimila anime circa furono riunite nei villaggi delle missioni sotto la guida dei gesuiti. Tutto ciò che l’esperienza, lo studio quotidiano e la viva carità insegnavano ai gesuiti dava i suoi frutti; essi facevano sforzi incessanti per affrettare il successo senza comprometterlo. Nonostante tutte queste sollecitudini si sentiva, però, che il potere non era mai abbastanza assoluto per costringere i neofiti a persistere sul buon cammino, e in mille occasioni si poteva constatare la scarsa solidità reale dell’edificio.

Quando i provvedimenti presi dal conte d'Aranda tolsero al Paraguay i suoi pii e abili civilizzatori, se ne ebbe la più triste e completa dimostrazione. I guarani, privati delle loro guide spirituali, rifiutarono qualsiasi fiducia ai capi laici inviati dalla corona di Spagna. Non mostrarono il minimo attaccamento alle loro nuove istituzioni. Li riprese il gusto della vita selvaggia e oggi, a eccezione di trentasette villaggetti che vegetano ancora sulle rive del Paranà, del Paraguay e dell'Uruguay, villaggi che contengono certamente un nucleo di popolazione meticcia, tutto il resto è stato riassorbito dalle foreste e la vita vi si svolge così selvaggia quanto, a occidente, quella delle tribù dello stesso ceppo, guarani e sirionò. I fuggiaschi hanno ripreso non dico i loro antichi costumi in tutta la loro purezza, ma certo costumi appena ringiovaniti e che ne derivano direttamente, e questo perché a nessuna razza umana è dato di essere infedele ai propri istinti né di abbandonare il sentiero su cui Dio l'ha messa. Si può credere che se i gesuiti avessero continuato a reggere le loro missioni al Paraguay, i loro sforzi, assecondati dal tempo, avrebbero fruttato migliori successi. Ammettiamolo pure; ma a quest’unica condizione, sempre la stessa: gruppi di popolazione europea sarebbero venuti a poco a poco a stabilirsi nel paese, sotto la protezione della loro dittatura; si sarebbero mescolati agli indigeni, avrebbero dapprima modificato poi completamente cambiato il sangue, e a queste condizioni si sarebbe formato in tali contrade uno Stato che avrebbe forse portato un nome aborigeno, si sarebbe forse gloriato di discendere da antenati autoctoni, ma alla prova dei fatti, in verità, tanto europeo quanto le istituzioni che lo avrebbero retto.

Ecco quanto avevo da dire sui rapporti fra istituzioni e razze.


Arthur de Gobineau, Saggio sulla disuguaglianza delle razze (1855). Capitolo V - Le ineguaglianze etniche non sono il risultato delle istituzioni.

Simone Sala