Sole e acciaio Lettura di 13 minuti

Notte, sole e muscoli

Le opere letterarie scritte e divulgate in quel periodo erano dominate da un pensiero notturno, ma le loro notti si differenziavano dalle mie per l'assenza totale di estetismo. Quell'epoca tributava una ammirazione maggiore alle notti profonde che a quelle sfumate, e le dense tenebre del mio miele, in cui rimanevo immerso tanto a lungo da fanciullo, agli occhi altrui dovevano apparire del tutto inconsistenti.

A poco a poco persi la fiducia che durante la guerra avevo nutrito per la notte, e giunsi a credere che forse avevo sempre fatto parte della schiera degli adoratori del sole. Probabilmente era vero. E se così era, dubitai che continuare, come un tempo, a considerare il sole un nemico persistendo nella mia personale, piccola notte sarebbe stato solo un atto di ossequio ai tempi.

Gli uomini dediti alle meditazioni notturne avevano, senza eccezione, la pelle secca, priva di luminosità, e uno stomaco debole. Essi cercavano di avvolgere un'epoca in una sola estesa notte di idee, e negavano in ogni sua forma il sole che avevo veduto. Rifiutavano anche la vita e la morte che avevo scorto in esso. Il sole, infatti, contribuiva a entrambe.

Tralascerò di raccontare, avendone già scritto altrove, come, nel 1952, sulla tolda della nave con la quale compivo il mio primo viaggio all'estero, mi riconciliai con il sole con una stretta di mano. In ogni caso quello fu il mio secondo incontro con lui. Da allora non ho più potuto separarmene. Il sole si collegò all'immagine di quel principio che avrei voluto seguire sopra ogni altro. E lentamente abbronzò la mia pelle, mi impresse il marchio di appartenente a un'altra razza.

Eppure il pensiero non appartiene forse essenzialmente alla notte? La creazione che avviene mediate le parole non si compie ineluttabilmente nella calda tenebra notturna? Non avevo perso l'abitudine di rimanere sveglio a lavorare, e intorno a me vedevo altri che mostravano chiaramente sulla pelle i segni delle meditazioni notturne.

Ma, nuovamente, perché gli uomini cercano la profondità, l'abisso?

Perché il pensiero si preoccupa solo di scendere perpendicolarmente, come un filo di piombo? Perché non riesce, cambiando direzione, a salire verticalmente in alto, verso la superficie?

Il dominio della pelle, che garantisce un'esistenza formale all'essere umano, è abbandonato alla sensibilità, è il più disprezzato; una volta che si era diretto verso la profondità, il pensiero tentava di penetrare negli abissi imperscrutabili insabbiandosi; quando mirava in alto, esso lasciava la forma corporea per allontanarsi librandosi verso la luce di un cielo infinito e ugualmente invisibile; e io non comprendevo le leggi che governavano i suoi movimenti. Se il principio fondamentale del pensiero era mirare all'estremo, sia verso l'alto che verso il basso, mi pareva del tutto irrazionale che non si scoprisse una specie di abisso nella «superficie», che garantisce la consistenza e la forma del nostro corpo, importante frontiera che divide il nostro mondo interno da quello esterno; mi sorprendeva che non si fosse affascinati dalla «profondità della superficie».

Il sole mi stimolava a trascinare il pensiero fuori dalla notte delle sensazioni viscerali, fino al rigonfiamento dei muscoli fasciati da una pelle luminosa. E mi ordinava di costruire una nuova dimora in cui i pensieri, che gradatamente affioravano alla superficie, potessero abitare sicuri e tranquilli. Quella dimora era una pelle abbronzata e luminosa, muscoli possenti, sviluppati e sensibili. Il «pensiero della forma» e il «pensiero della superficie» non erano familiari alla maggior parte degli intellettuali proprio perché richiedevano una simile dimora, perché erano indispensabili simili utensili.

I pensieri del corpo prodotti da organi interni malati si formano mentre l'interessato quasi non ha coscienza se a nascere per primo sia il pensiero, oppure un leggero sintomo patologico di quegli organi. Tuttavia il corpo, in un luogo segreto e invisibile, costruisce e dirige lentamente il proprio pensiero. Inversamente, affinché la superficie visibile a tutti possa creare e dirigere un pensiero epidermico, l'allenamento fisico deve precedere l'esercizio del pensiero. La mia necessità di un allenamento fisico avrebbe potuto essere prevista fin da quando incominciai a essere attratto dalla profondità «epidermica».

Sapevo che solo i muscoli potevano garantire simili pensieri. Chi considererebbe un teorico di cultura fisica debole e malato? Si può perdonare chi manipola i pensieri notturni nel proprio studio, ma esiste qualcosa di più miserevole delle labbra di un pallido intellettuale che disserti sul corpo, per criticarlo o lodarlo? Conoscevo troppo bene quello squallore, e così un giorno, improvvisamente, decisi di acquisire una muscolatura possente.

Vi prego di notare che tutto questo scaturì dal mio «pensiero». Credevo che, come nell'allenamento fisico i muscoli ritenuti involontari si trasformano fino a diventare volontari, così anche l'esercizio del pensiero potesse determinare metamorfosi analoghe. Sia il corpo che il pensiero, per una tendenza ineluttabile che definirei una sorta di legge naturale, possono facilmente cadere nell'automatismo, ma io avevo già sperimentato numerose volte quanto fosse facile deviare un corso d'acqua scavando piccoli canali.

Questo era anche un esempio della corrispondenza tra il nostro corpo e il nostro spirito: il corpo e lo spirito, se governati da un'idea, tendono immediatamente a creare un piccolo universo regolato da un «falso ordine». Benché rappresenti una specie di pausa, questo appare invece come un'attività centripeta quanto mai dinamica. La funzione plastica con cui il corpo e lo spirito creano per un breve intervallo un piccolo universo è simile all'opera di un'illusione; le sensazioni effimere di felicità della nostra vita devono molto a questo «falso ordine». Si potrebbe anche chiamarlo funzione difensiva della vita contro il caos esterno, simile al modo in cui un porcospino si arrotola su se stesso. Ne conseguiva la possiblità di rompere il «falso ordine», costruirne un altro e, capovolgendo questo solido processo formativo della vita, indirizzarlo verso la realizzazione dei propri desideri.

Attuai subito quel «pensiero». Esso, più che un'idea, era un proposito che il sole mi donava giorno per giorno.

Così mi trovai davanti a una massa di acciaio scura, pesante, fredda, come se la quintessenza della notte vi si fosse ancora più condensata.

Quel giorno iniziò una stretta relazione che sarebbe durata dieci anni, tra la massa d'acciaio e me.

La natura di questo acciaio è veramente strana: ogni suo aumento di peso accresceva gradatamente, proprio come su una bilancia, anche la consistenza dei miei muscoli sull'altro piatto. Era come se l'acciaio avesse il dovere di conservare un equilibrio infinitesimale con il peso dei miei muscoli. E, gradualmente, tutte le proprietà dei miei muscoli rafforzarono la loro rassomiglianza con l'acciaio. Questo lento sviluppo somigliava straordinariamente a quel processo di «educazione» mediante il quale si ricostruisce intellettualmente il cervello fornendo all'encefalo prodotti intellettuali sempre più difficili. E poiché continuavo a sognare una superficiale, esemplare forma ideale e classica del corpo quale obiettivo finale dell'educazione, l'intero processo somigliava molto al modello dell'educazione classica.

Ma quale dei due somigliava veramente all'altro? Non cercavo forse con le parole di imitare la forma classica del corpo? La bellezza, per me, tornava sempre sui propri passi. Per me era importante solo un'immagine che esisteva un tempo, o che avrebbe dovuto esistere. La massa d'acciaio, con le proprie operazioni che presentavano variazioni infinite, ricreava un equilibrio classico, adempiva alla funzione di sospingere nuovamente il corpo verso la forma che avrebbe dovuto possedere. I fasci di muscoli, ormai quasi superflui nella vita contemporanea, sono ancora elementi vitali nella struttura del corpo maschile, ma è evidente la loro inutilità nella vita quotidiana: i muscoli non sono necessari, proprio come non è necessaria un'educazione classica per la grande maggioranza degli uomini pratici. I muscoli erano diventati progressivamente simili alla lingua greca antica. Per resuscitare quella lingua morta era necessaria un'educazione impartita dall'acciaio, per ribaltare il silenzio della morte nell'eloquenza della vita era essenziale l'aiuto dell'acciaio.

L'acciaio mi mostrò quale rispondenza esistesse realmente tra lo spirito e il corpo: emozioni deboli corrispondono a muscoli flaccidi, il sentimentalismo a uno stomaco rilassato, la sensibilità a una pelle bianca e delicata; quindi i muscoli sviluppati dovevano corrispondere a un ardente spirito combattivo, uno stomaco teso a un giudizio freddo e cerebrale, una pelle elastica a un carattere risoluto. Voglio precisare che non intendo sostenere che questo valga per la totalità degli uomini. Anche la mia limitata esperienza era sufficiente a farmi concludere che c'erano casi in cui i muscoli sviluppati nascondevano un animo debole. Però, come ho già accennato, per me le parole precedevano la carne, e quindi le immagini di tutte le virtù morali evocate da espressioni come ardente, elastico, risoluto dovevano necessariamente manifestarsi come segni fisici: per raggiungere questo fine era dunque sufficiente che donassi a me stesso, come in un processo educativo, queste caratteristiche esteriori.

Inoltre, al di là di quella forma classica, in me era latente un progetto romantico. L'impulso romantico, che fin da ragazzo era come una corrente sotterranea nella mia mente, assumeva significato solo in quanto distruzione della perfezione classica e si annunciava in me come un preludio in cui fosse presente la totalità dei temi dell'intera sinfonia: prima ancora di avere ottenuto un solo risultato concepivo già una composizione predeterminata. Pur nutrendo un profondo impulso romantico verso la morte, esigevo quale suo strumento un corpo rigorosamente classico; data la mia strana concezione del destino, gli impulsi romantici che mi spingevano alla morte non ebbero modo di realizzarsi per una ragione molto semplice: credevo di non possedere le qualità fisiche necessarie. Per una morte romantica ed eroica erano indispensabili muscoli possenti e scultorei; pensavo che se carni flaccide si fossero trovato al cospetto della morte, non si sarebbe manifestata che una ridicola inadeguatezza. A diciott'anni, benché desiderassi ardentemente una fine violenta, sentivo di non esserne degno. Infatti non possedevo muscoli che si addicessero a una morte drammatica. E feriva profondamente il mio orgoglio romantico l'essere sopravvissuto fino al termine della guerra grazie a quella inadeguatezza.

Comunque quell'intrico di idee contorte era semplicemente il groviglio del preludio di un essere che non aveva ancora realizzato nulla. Sarebbe bastato che un giorno riuscissi a realizzare qualcosa, o a distruggere qualcosa. E fu proprio l'acciaio a darmi la chiave di tutto.

Molti uomini sviluppano la propria formazione intellettuale fino a un certo punto e si considerano soddisfatti, mentre a me l'intelletto non apparve mai sotto forma di cultura innocua; dovetti invece scoprire che mie era stato elargito unicamente come un mezzo per vivere, come un'arma. Dunque la disciplina fisica era diventata indispensabile alla mia educazione; proprio come un uomo che, possedendo per vivere soltanto il proprio corpo, e dovendo dare addio alla gioventù, tenti disperatamente di acquisire un'istruzione.

Grazie all'acciaio appresi molte verità sui muscoli. Era quella la conoscenza più spontanea, che né i libri né l'esperienza del mondo potrebbero assolutamente donare. I muscoli, oltre a essere una forma, erano anche una forza, e la responsabilità della sua direzione era infinitesimamente suddivisa tra tutti i fasci di muscoli, proprio come una luce creata nella carne.

Nulla, maggiormente che il concetto di forma che racchiude una forza, concordava con la definizione di opera d'arte che sognavo da tempo: doveva essere una splendida, radiosa opera «organica».


Yukio Mishima, Sole e acciaio (1970). Prima parte — Sole e acciaio.

Simone Sala