Genealogia della morale Lettura di 8 minuti

Roma e Giudea

I due valori opposti «buono e cattivo», «buono e malvagio» hanno su questa terra combattuto fra di loro una lunga e terribile lotta; e quantunque dopo molto tempo il secondo valore abbia prevalso, si trovano tuttavia ancor oggi dei luoghi dove il combattimento continua indeciso. Si potrebbe perfino dire che in tutto questo tempo la lotta è stata portata a un livello più alto, diventando con ciò più profonda e spirituale, sicché oggi l'esser dissenziente e l'esser pronti a scender sul campo di battaglia di queste due opposte idee costituisce forse l'indice più sicuro di un «carattere superiore» e dotato di spiritualità. Il simbolo di questa lotta, impresso in caratteri rimasti leggibili al di sopra di tutta la storia dell'umanità, è dato da «Roma contro Guidea, Giudea contro Roma». Non si è avuto fino ad oggi avvenimento più grande di questa lotta, di questa opposizione di principio, di questo conflitto mortale. Roma sentiva nell'Ebreo una perfetta contrapposizione al suo carattere, quasi un mostro collocato ai suoi antipodi; a Roma l'Ebreo era considerato come «un essere convinto di odio contro tutto il genere umano»: e con ragione, se si ha ragione di legare la salute e l'avvenire dell'umanità alla dominazione incondizionata dei valori aristocratici, dei valori romani. Quali sentimenti provavano a loro volta i Giudei verso i Romani? Mille indizi ci permettono d'indovinarli, ma basta riportarsi alla memoria l'Apocalisse di San Giovanni, il più selvaggio di tutti i misfatti scritti che lo spirito di vendetta abbia sulla coscienza. (D'altra parte non si sottovaluti la logica profonda dell'istinto cristiano per aver associato proprio questo libro dell'odio al nome del discepolo dell'amore, dello stesso discepolo a cui si attribuisce la paternità dell'Evangelo dell'esaltazione amorosa; in esso vi è una parte di verità, qualunque sia l'enormità della falsificazione letteraria a cui si è necessariamente ricorso per raggiunger lo scopo).

I Romani erano i forti e i nobili, più forti e più nobili di quanti siano mai esistiti e nemmeno mai stati sognati sulla terra; ogni vestigio della loro dominazione, fino alla più breve iscrizione, esercita un fascino, ammesso che si sappia intendere qual fosse l'animo che quelle cose scriveva. Gli Ebrei invece erano un popolo sacerdotale, popolo del risentimento, il quale possedeva una genialità senza pari per la morale delle masse: lo si confronti con i popoli dotati di qualità simili, per esempio con i Cinesi o i Germani, per discernere che cosa sia di primo e che cosa di quinto ordine. Quale dei due ha vinto, Roma o Giudea? Ma non vi è nessun dubbio. Si osservi piuttosto davanti a chi oggi, nella stessa Roma, ci si prosterna come davanti al compendio di tutti i più alti valori — e non soltanto a Roma, ma in tutta una metà della terra, dovunque l'uomo è addomesticato o vuole esserlo: — davanti a tre Giudei, come si sa, e a una Giudea (davanti a Gesù di Nazareth, al pescatore Pietro, a Paolo che fabbricava tappeti e alla madre dell'ora nominato Gesù, chiamata Maria). È un fatto assai notevole indubbiamente che Roma sia stata vinta. È vero che durante il Rinascimento si è avuto un risveglio superbo e inquietante dell'ideale classico, della valutazione aristocratica di tutte le cose: Roma antica nuovamente si agita come si risvegliasse da un letargo, in cui l'aveva tenuta schiacciata la Roma nuova, la Roma ebraicizzata, edificata sulle sue rovine, che presentava l'aspetto di una sinagoga ecumenica e si chiamava «Chiesa»: ma subito Giuda trionfò di nuovo, grazie a quel moto di risentimento (tedesco e inglese) fondamentalmente plebeo che si chiamò Riforma, includendovi quel che doveva seguirne, la Controriforma, vale a dire il ristabilimento dell'antico silenzio sepolcrale sulla Roma classica. In un senso ancora più decisivo e profondo Giuda conseguì una nuova vittoria sull'ideale classico con la Rivoluzione francese: in quel tempo l'ultima aristocrazia politica che ancora sussistesse in Europa, la francese dei secoli decimosesto e decimosettimo, crollò sotto i colpi degli istinti popolari di risentimento, e mai fu udito sulla terra giubilio più vasto, un entusiasmo più strepitoso!

È vero che improvvisamente, in mezzo a tutto questo fracasso, accadde la cosa più prodigiosa e più inattesa: l'ideale antico si rialzò, in carne e ossa e con un insolito splendore, davanti agli occhi e alla coscienza dell'umanità, — e ancora una volta, più forte, più semplice, più efficace che mai, risuonò di fronte al motto menzognero del risentimento, diritto della maggioranza, di fronte alla volontà d'avvilimento, d'abbassamento, di livellamento, di fronte al crepuscolo dell'uomo, il terribile e affascinante motto contrario, quello del diritto dei pochi! Per ultimo, a indicare l'altra via, apparve Napoleone, uomo unico e tardi venuto, se mai ve ne furono, e con lui apparve l'incarnazione del problema dell'ideale aristocratico; si rifletta bene qual genere di problema sia questo: Napoleone, la sintesi dell'inumano e del sovrumano...


Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale (1887). Saggio I - paragrafo 16.

Simone Sala