Sull'utilità e il danno... Lettura di 25 minuti

Tre specie di storia

Ma che la vita abbia bisogno del servizio della storia, deve essere compreso altrettanto chiaramente quanto la proposizione che sarà più tardi da dimostrare — secondo cui un eccesso di storia danneggia l’essere vivente. In tre riguardi al vivente occorre la storia: essa gli occorre in quanto è attivo e ha aspirazioni, in quanto preserva e venera, in quanto soffre e ha bisogno di liberazione. A questi tre rapporti corrispondono tre specie di storia, in quanto sia permesso distinguere una specie di storia monumentale, una specie antiquaria e una specie critica.

La storia occorre innanzitutto all’attivo e al potente, a colui che combatte una grande battaglia, che ha bisogno di modelli, maestri e consolatori, e che non può trovarli fra i suoi compagni e nel presente. Così essa occorreva a Schiller: il nostro tempo è infatti così cattivo, dice Goethe, che nella vita umana che lo attornia il poeta non incontra più nessuna natura utilizzabile. Con riguardo all’attivo, Polibio chiama per esempio la storia politica la vera preparazione al governo di uno Stato, e l’ottima maestra che col ricordo delle altrui sventure ci ammonisce a sopportare con fermezza i mutamenti di fortuna. Chi ha imparato a riconoscere in ciò il senso della storia, deve essere infastidito nel vedere viaggiatori curiosi o meticolosi micrologi arrampicarsi sulle piramidi dei grandi eventi del passato; là dove egli trova incitamenti a imitare e a far meglio, non desidera incontrare l’ozioso che, desideroso di distrazioni o di sensazioni, gironzola come fra i tesori artistici accumulati in una galleria. È per non scoraggiarsi e sentir nausea in mezzo agli oziosi deboli e senza speranze, in mezzo a compagni in apparenza attivi, ma in verità soltanto eccitati e gesticolanti, che l’attivo si guarda indietro e interrompe la corsa verso la sua meta, perprendere respiro. Ma la sua meta è una qualche felicità, forse non la sua propria, spesso quella di un popolo o quella dell’umanità intera; egli fugge dalla rassegnazione e usa la storia come mezzo contro la rassegnazione. Per lo più non lo attende nessuna ricompensa se non la gloria, cioè il diritto a un posto d’onore nel tempio della storia, dove egli stesso potrà essere maestro, consolatore e ammonitore per i posteri. Giacché il suo comandamento suona: ciò che una volta poté estendere oltre e adempiere in modo più bello l’idea «uomo», deve anche esistere in eterno, per poter fare ciò in eterno. Che i grandi momenti nella lotta degli individui formino una catena, che attraverso essi si formi lungo i millenni la cresta montuosa dell’umanità, che per me le vette di tali momenti da lungo tempo trascorsi siano ancora vive, chiare e grandi — è questo il pensiero fondamentale di una fede nell’umanità che si esprime nell’esigenza di una storia monumentale. Ma proprio per questa esigenza, che il grande debba essere eterno, si accende la più terribile lotta. Ogni altra cosa che vive grida infatti il suo no. Il monumentale non deve sorgere – è questa la parola d’ordine contraria. La muffita abitudine, ciò che è piccolo e basso, riempiendo tutti gli angoli del mondo, vaporando come pesante aria terrestre intorno a tutto ciò che è grande, si getta ostacolando, ingannando, smorzando e soffocando attraverso la strada che la grandezza deve percorrere per giungere all’immortalità. Ma questa strada passa attraverso cervelli umani! Attraverso i cervelli di animali impauriti e dalla vita corta, che si trovano sempre di nuovo davanti alle stesse necessità e che respingono da sé a fatica, per un piccolo tratto di tempo, la rovina. Giacché vogliono prima d’ogni altra cosa solo questo: vivere a ogni costo. Chi potrebbe supporre in loro quella difficile corsa con la fiaccola della storia monumentale, mediante la quale soltanto può sopravvivere ciò che è grande? E tuttavia sempre di nuovo si destano alcuni che, guardando alla grandezza passata e rafforzati dalla contemplazione di essa, si sentono pieni di felicità, come se la vita umana fosse una cosa magnifica, e come se addirittura il più bel frutto di quest’amara pianta consistesse nel sapere che una volta qualcuno passò attraverso questa esistenza con orgoglio e forza, un altro con profondità, un terzo con misericordia e carità – tutti comunque lasciando dietro di sé una dottrina, secondo cui vive nel modo più bello colui che non dà peso all’esistenza. Se l’uomo volgare prende questa spanna di tempo in modo così melanconicamente serio e avido, quelli seppero giungere, sulla loro via verso l’immortalità e la storia monumentale, a un riso olimpico, o per lo meno a un sublime scherno; spesso scesero nella tomba con ironia, giacché cosa c’era in loro da sotterrare? Nient’altro che ciò che li aveva sempre oppressi come scoria, lordume, vanità e bestialità, e che era ormai consegnato all’oblio, dopo essere stato a lungo esposto al loro disprezzo. Ma una cosa vivrà, il monogramma della loro più propria essenza, un’opera, un’azione, una rara illuminazione, una creazione: vivrà, perché nessuna posterità potrà farne a meno. In questa trasfiguratissima forma la gloria è invero qualcosa di meglio del più prelibato boccone del nostro amor proprio, come Schopenhauer l’ha chiamata, è la fede nell’omogeneità e continuità della grandezza di tutti i tempi, è una protesta contro il mutamento delle stirpi e contro la transitorietà.

In che giova dunque all’uomo d’oggi la considerazione monumentale del passato, l’occuparsi delle cose classiche e rare delle epoche precedenti? Egli ne deduce che la grandezza, la quale un giorno esistette, fu comunque una volta possibile, e perciò anche sarà possibile un’altra volta; egli percorre più coraggiosamente la sua strada, poiché ora il dubbio che lo assale nelle ore di debolezza, di volere forse l’impossibile, è spazzato via. Si supponga che qualcuno creda che non ci vorrebbero più di cento uomini produttivi, educati e attivi in un nuovo spirito, per far crollare quella «culturalità» che è venuta proprio ora di moda in Germania: come dovrebbe rafforzarlo il constatare che la cultura del Rinascimento si edificò sulle spalle di una siffatta schiera di cento uomini!

E tuttavia — per imparare subito dallo stesso esempio ancora qualcosa di nuovo — come sarebbe fluido e fluttuante, come sarebbe inesatto quel paragone! Quanta diversità dev’essere al riguardo trascurata, se esso vuol aver quell’effetto corroborante, quanto violentemente l’individualità del passato deve essere costretta in una forma generale e smussata in tutti gli angoli acuti, e le linee spezzate a favore di una concordanza! In fondo anzi ciò che fu possibile una volta potrebbe presentarsi come possibile per laseconda volta solo se i Pitagorici avessero ragione nel credere che, per una medesima costellazione dei corpi celesti, anche sulla terra si dovessero ripetere le medesime cose fin nei minimi particolari: sicché quando le stelle avessero una certa posizione reciproca, uno Stoico si unirebbe sempre di nuovo con un Epicureo per assassinare Cesare, e in un’altra posizione Colombo scoprirebbe sempre di nuovo l’America. Solo se la terra ricominciasse ogni volta la sua commedia dopo il quinto atto, se fosse stabilito che la stessa concatenazione di motivi, lo stesso deus ex machina, la stessa catastrofe ritornassero a determinati intervalli, allora il potente potrebbe desiderare la storia monumentale secondo una piena, iconica veracità, ossia ogni fatto nella sua particolarità e unicità esattamente formate: probabilmente dunque non prima che gli astronomi fossero diventati di nuovo astrologi. Fino ad allora la storia monumentale potrà non aver bisogno di quella piena veracità: sempre avvicinerà, generalizzerà e infine parificherà il dissimile, sempre attenuerà la diversità dei motivi e delle occasioni, per presentare gli effectus a spese delle causae in maniera monumentale, cioè esemplare e degna di imitazione: sicché con una piccola esagerazione, in quanto prescinde il più possibile dalle cause, la si potrebbe dire una raccolta di «effetti in sé», come di avvenimenti che «faranno effetto» in ogni tempo. Ciò che viene festeggiato nelle feste popolari, nelle ricorrenze religiose o guerresche, è propriamente un tale «effetto in sé»: è questo che non fa dormire gli ambiziosi, che posa sul cuore degli intraprendenti come un amuleto, non già il connexus veramente storico di cause ed effetti che, conosciuto completamente, dimostrerebbe soltanto che mai più qualcosa di assolutamente uguale potrà risultare nel giuoco di dadi del futuro e del caso.

Finché l’anima della storiografia consiste nei grandi impulsi che un uomo potente ne trae, finché il passato deve essere descritto come degno di imitazione, imitabile e per la seconda volta possibile, essa è in ogni caso in pericolo di essere alquanto falsata, abbellita nell’interpretazione e in tal modo avvicinata alla libera invenzione; anzi ci sono epoche che non sono affatto capaci di distinguere fra un passato monumentale e un’invenzione mitica, perché da uno di questi mondi possono essere tratti esattamente gli stessi impulsi che dall’altro. Se la considerazione monumentale del passato domina sulle altre forme di considerazione, voglio dire sull’antiquaria e sulla critica, lo stesso passato ne soffre danno: intere, grandi parti di esso vengono dimenticate, spregiate, e scorrono via come un grigio e ininterrotto flusso, mentre emergono come isole solo singoli fatti abbelliti; nei rari personaggi che in genere divengono visibili, salta agli occhi un che di innaturale e di meraviglioso, come l’anca d’oro che i discepoli di Pitagora volevano vedere nel loro maestro. La storia monumentale inganna con le analogie: con seducenti somiglianze essa eccita il coraggioso alla temerarietà, l’entusiasta al fanatismo; e se si immagina poi questa storia nelle mani e nelle menti degli egoisti dotati e dei ribaldi fanatici, ecco che regni vengono distrutti, prìncipi assassinati, guerre e rivoluzioni scatenate, e che il numero degli «effetti in sé» storici, cioè gli effetti senza cause sufficienti, viene di nuovo accresciuto. Questo per ricordare i danni che la storia monumentale può fare tra i potenti e gli attivi, siano poi buoni o cattivi: ma cosa causerà mai quando di essa si impadroniranno e si serviranno gli impotenti e gli inattivi!

Prendiamo l’esempio più semplice e frequente. Si immaginino le nature non artistiche, o debolmente artistiche, corazzate e armate dalla storia monumentale dell’arte: contro chi volgeranno ora le loro armi? Contro i loro nemici secolari, gli spiriti artistici forti, ossia contro coloro che soli sono capaci di apprendere veracemente da quella storia, vale a dire per la vita, e di convertire quanto hanno appreso in una prassi potenziata. A costoro viene sbarrata la via; a costoro viene ottenebrata l’aria, quando si danza con idolatria e con grande impegno intorno a un monumento compreso a metà di un qualche grande passato, come se si volesse dire: «Guardate, è questa l’arte vera e reale: cosa v’importa di coloro che divengono e vogliono?». In apparenza questo sciame danzante possiede perfino il privilegio del «buon gusto»: colui che crea è infatti sempre svantaggiato rispetto a colui che sta solo a guardare e non pone mano all’opera lui stesso; come in tutti i tempi il politicante è più saggio, giusto e riflessivo dello statista governante. Ma se si vuole addirittura trasferire nel campo dell’arte l’uso dei plebisciti e delle maggioranze numeriche, e costringere l’artista per così dire a difendersi davanti al foro dei fannulloniestetici, ci si può giurar sopra in anticipo che sarà condannato: e ciò proprio perché i suoi giudici hanno solennemente proclamato il canone dell’arte monumentale (ossia, secondo la spiegazione data, dell’arte che «ha fatto effetto» in tutti i tempi), non già nonostante questo. Invece per ogni arte che non è ancora monumentale, in quanto arte del presente, manca in tali giudici in primo luogo il bisogno, in secondo la pura inclinazione e in terzo appunto quell’autorità della storia. Per contro il loro istinto rivela loro che l’arte può essere ammazzata dall’arte: il monumentale non deve mai più risorgere, e a tale scopo serve proprio ciò che all’autorità del monumentale proviene dal passato. Così sono conoscitori d’arte, perché vorrebbero eliminare l’arte in genere; così si atteggiano a medici, mentre in fondo hanno mirato all’avvelenamento; così educano la loro lingua e il loro gusto, per spiegare con la loro raffinatezza perché rifiutino così insistentemente tutto ciò che di nutriente cibo artistico viene loro offerto. Giacché non vogliono che la grandezza nasca; il loro strumento sta nel dire: «guardate, il grande esiste già!». In verità a loro, di questa grandezza che esiste già, importa tanto poco, quanto di quella che sorge: ne fornisce testimonianza la loro vita. La storia monumentale è l’abito mascherato, in cui il loro odio per i potenti e i grandi del loro tempo si spaccia per sazia ammirazione dei potenti e dei grandi dei tempi passati; camuffati così rovesciano il vero senso di quella maniera storica di considerare in quello opposto; che lo sappiano chiaramente o no, agiscono in ogni caso come se il loro motto fosse: lasciate che i morti seppelliscano i vivi.

Ciascuna delle tre specie di storia che esistono è nel suo diritto su un solo terreno e in un solo clima: su ogni altro terreno cresce come erbaccia distruttiva. Se l’uomo che vuol creare cose grandi ha in genere bisogno del passato, se ne impossessa per mezzo della storia monumentale; chi invece ama perseverare nel tradizionale e in ciò che è venerato da gran tempo, coltiva il passato come storico antiquario; e solo colui al quale una sofferenza presente opprime il petto, e che a ogni costo vuol gettar via il peso da sé, ha bisogno della storia critica, vale a dire di quella che giudica e condanna. Molto male deriva dal trapiantare sconsideratamente i vegetali: il critico senza sofferenza, l’antiquario senza pietà, il conoscitore della grandezza senza la capacità della grandezza sono tali piante diventate erbacce, estraniate al loro terreno naturale e perciò degenerate.


Della storia ha bisogno in secondo luogo colui che custodisce e venera — colui che guarda indietro con fedeltà e amore, verso il luogo onde proviene, dove è divenuto; con questa pietà egli per così dire paga il debito di riconoscenza per la sua esistenza. Coltivando con mano attenta ciò che dura fin dall’antichità, egli vuole preservare le condizioni nelle quali è nato per coloro che verranno dopo di lui — e così serve la vita. In una tale anima il possesso del patrimonio ancestrale muta il suo concetto: giacché è piuttosto l’anima a essere da quello posseduta. Ciò che è piccolo, limitato, decrepito e invecchiato riceve la sua propria dignità e intangibilità dal fatto che l’anima dell’uomo antiquario, la quale custodisce e venera, trapassa in queste cose e vi si prepara un nido familiare. La storia della sua città diventa per lui la storia di se stesso; egli concepisce le mura, la porta turrita, l’ordinanza municipale, la festa popolare come un diario illustrato della sua gioventù, e in tutte queste cose ritrova se stesso, la sua forza, la sua diligenza, il suo piacere, il suo giudizio, la sua follia e le sue cattive maniere. Qui si poteva vivere, egli si dice, giacché si può vivere; qui si potrà vivere, giacché siamo tenaci e non ci si può spezzare da un giorno all’altro. Così, con questo «noi», egli guarda oltre la caduca e peregrina vita individuale, e sente se stesso come lo spirito della casa, della stirpe e della città. Talvolta saluta, anche al di là di secoli lontani, oscuri e confusi, l’anima del suo popolo come la sua stessa anima; un penetrare col sentimento e un presagire cose nascoste, un fiutare tracce quasi cancellate, un’istintiva ed esatta decifrazione del passato ancora così coperto di scritture, un rapido intendere i palinsesti, anzi i polisesti — sono queste le sue doti e le sue virtù. Con questo animo Goethe contemplò il monumento di Erwin von Steinbach; nella tempesta del suosentimento il velo storico di nubi qui disteso si lacerò: egli vide per la prima volta di nuovo l’opera tedesca, «che agisce dal fondo della forte e ruvida anima tedesca». Un tale senso e impulso guidò gli Italiani del Rinascimento e risvegliò nei loro poeti l’antico genio italico a una «nuova meravigliosa risonanza dell’antichissimo arpeggio», come dice Jacob Burckhardt. Ma quel senso di venerazione storico-antiquario raggiunge il suo più alto valore dove riesce a diffondere un sentimento di piacere e di contentezza semplice e commovente riguardo alle condizioni modeste, rozze e finanche misere, in cui può vivere un uomo o un popolo; come per esempio Niebuhr confessa con sincero candore di vivere felice e di non sentire la mancanza dell’arte tra landa e palude, in mezzo a liberi contadini che abbiano una storia. Come potrebbe la storia servire la vita meglio che stringendo alla loro patria e al patrio costume anche le stirpi e popolazioni meno favorite, rendendole stabili e trattenendole dal vagare in paesi stranieri in cerca di condizioni migliori, e dal gareggiare per esse? Talvolta ciò che per così dire inchioda l’individuo a questi compagni e a questo ambiente, a questa faticosa abitudine e a questi versanti brulli, sembra ostinatezza e irragionevolezza — ma è l’irragionevolezza più salutare e benefica per la collettività, come sa chiunque abbia reso chiari a se stesso i terribili effetti dell’avventuroso piacere di espatriare, forse addirittura nel caso di intere schiere di popoli, o veda da vicino lo stato di un popolo che ha perduto la fedeltà al suo passato ed è abbandonato a un’incessante e cosmopolitica scelta e ricerca di cose nuove e sempre nuove. Il sentimento opposto, il benessere dell’albero per le sue radici, la felicità di non sapersi totalmente arbitrari e fortuiti, ma di crescere da un passato come eredi, fiori e frutti, e di venire in tal modo scusati, anzi giustificati nella propria esistenza — è questo ciò che oggi si designa di preferenza come il vero e proprio senso storico.

Ora però questo non è lo stato in cui l’uomo sarebbe maggiormente capace di risolvere il passato in pura scienza; sicché anche qui constatiamo ciò che abbiamo constatato per la storia monumentale, che il passato stesso soffre finché la storia serve la vita e viene signoreggiata da impulsi vitali. Per dirla con una certa libertà d’immagine, l’albero sente le sue radici più che non possa vederle; ma questo sentimento misura la grandezza delle radici in base alla grandezza e alla forza dei rami visibili. Se l’albero può già sbagliare in questo, come non sarà poi in errore circa l’intera foresta intorno a sé? Di essa sa e sente qualcosa solo in quanto la foresta lo ostacola o perfino gli giova — ma nient’altro che questo. Il senso antiquario di un uomo, di una cittadinanza o di un intero popolo ha sempre un campo visivo molto limitato; la maggior parte delle cose esso non la scorge neanche, e il poco che vede, lo vede troppo vicino e isolato; non lo sa misurare e perciò dà uguale importanza a tutto, e perciò troppa importanza alla cosa singola. Poi per le cose del passato non ci sono diversità e proporzioni di valore che facciano veramente giustizia ai rapporti delle cose tra loro; bensì ci sono sempre e solo misure e proporzioni delle cose rispetto all’individuo o al popolo che guarda all’indietro in senso antiquario.

Qui è sempre molto vicino un pericolo: alla fine tutto ciò che di antico e passato entra in genere ancora nell’orizzonte, viene semplicemente accettato come ugualmente venerabile, mentre tutto ciò che non muove incontro con venerazione a questa antichità, ossia il nuovo e ciò che diviene, è rifiutato e avversato. Così gli stessi Greci tollerarono lo stile ieratico delle loro arti figurative accanto a quello libero e grande, anzi essi non solo tollerarono più tardi i nasi appuntiti e il sorriso gelido, ma ne fecero addirittura una raffinatezza da buongustai. Quando l’animo di un popolo si indurisce a tal segno, quando la storia serve la vita passata al punto da minare la vita presente e proprio la vita superiore, quando il senso storico non conserva più ma mummifica la vita, allora l’albero muore, innaturalmente, disseccandosi a poco a poco verso la radice – e da ultimo generalmente perisce la radice stessa. La storia antiquaria degenera nel momento stesso in cui la fresca vita del presente non la anima e ravviva più. Ora la pietà si inaridisce, l’abitudine erudita continua ad esistere senza la pietà e gira in modo egoistico e compiaciuto intorno al proprio centro. Allora si osserva il ripugnante spettacolo di una cieca furia collezionistica, di una raccolta incessante di tutto ciò che è una volta esistito. L’uomo si rinchiude nel tanfo; riesce ad abbassare con la maniera antiquaria anche un talento più significativo, un bisogno piùnobile a un’insaziabile curiosità o meglio a un’avidità di cose vecchie e di tutto; spesso scende così in basso, che alla fine è contento di ogni cibo e mangia di gusto anche la polvere delle quisquilie bibliografiche.

Ma anche quando non subentra quella degenerazione, quando la storia antiquaria non perde il fondamento su cui soltanto può mettere radici a vantaggio della vita, restano però sempre non pochi pericoli, qualora cioè essa diventi troppo forte e soffochi gli altri modi di considerare il passato. Essa è capace appunto solo di conservare, non di generare vita; perciò sottovaluta sempre ciò che diviene, in quanto non ha per esso alcun istinto divinante — come per esempio lo ha la storia monumentale. Quindi la storia antiquaria ostacola la forte risoluzione per il nuovo, quindi paralizza chi agisce, il quale sempre, come agente, violerà e deve violare qualche pietà. Il fatto che qualcosa sia diventato vecchio genera ora la pretesa che debba essere immortale; giacché se uno calcola tutto ciò che una tale antichità — un antico costume dei padri, una fede religiosa, un privilegio politico ereditario — ha sperimentato durante il tempo della sua esistenza, quale somma di pietà e di venerazione ha ricevuto da parte dell’individuo e delle generazioni, allora appare temerario o persino scellerato sostituire una tale antichità con una novità, e contrapporre a un tal cumulo numerico di pietà e di venerazioni le unità di ciò che diviene ed è presente.

Qui si fa chiaro come l’uomo abbia molto spesso necessariamente bisogno, accanto al modo monumentale e antiquario di considerare il passato, di un terzo modo, quello critico: e anche di questo per servire la vita. Egli deve avere, e di tempo in tempo impiegare, la forza di infrangere e di dissolvere un passato per poter vivere: egli ottiene ciò traendo quel passato innanzi a un tribunale, interrogandolo minuziosamente, e alla fine condannandolo; ogni passato merita invero di essere condannato — giacché così vanno appunto le cose umane: sempre la violenza e la debolezza umane sono state potenti. Non è la giustizia che siede qui a giudizio; ancor meno è la clemenza che pronuncia qui il giudizio: ma soltanto la vita, quella forza oscura, impellente, insaziabilmente avida di se stessa. Il suo verdetto è sempre inclemente, sempre ingiusto, poiché esso non è mai scaturito da una pura fonte di conoscenza; ma nella maggior parte dei casi il verdetto risulterebbe uguale, se fosse la stessa giustizia a pronunciarlo. «Giacché tutto ciò che nasce merita di perire. Perciò sarebbe meglio che niente nascesse». Ci vuole molta forza per poter vivere e per dimenticare, in quanto vivere ed essere ingiusti sono una cosa sola. Lo stesso Lutero ha detto una volta che il mondo è nato solo per una dimenticanza di Dio: se Dio cioè avesse pensato all’«artiglieria pesante», non avrebbe creato il mondo. Ma talvolta proprio la vita stessa, che ha bisogno della dimenticanza, richiede il temporaneo annientamento di questa dimenticanza; allora appunto deve precisamente divenir chiaro quanto sia ingiusta l’esistenza di una qualche cosa, di un privilegio, di una casta, di una dinastia per esempio, quanto questa cosa meriti la fine. Allora il suo passato viene considerato criticamente, allora si attaccano con il coltello le sue radici, allora si calpestano crudelmente tutte le pietà. È sempre un processo pericoloso, pericoloso cioè per la vita stessa: uomini o tempi che servono la vita a questo modo, giudicando e annientando un passato, sono sempre uomini e tempi pericolosi e in pericolo. Infatti, dato che noi siamo i risultati di generazioni precedenti, siamo anche i risultati dei loro traviamenti, delle loro passioni e dei loro errori, anzi dei loro delitti; non è possibile staccarsi del tutto da questa catena. Se noi condanniamo quei traviamenti e ce ne riteniamo affrancati, non è eliminato il fatto che deriviamo da essi. Arriviamo nel miglior caso a un conflitto fra la natura ereditaria e avita e la nostra conoscenza, o anche a una lotta di una nuova e severa disciplina contro ciò che è acquisito e innato da gran tempo; noi piantiamo una nuova abitudine, un nuovo istinto, una seconda natura, sicché la prima natura rinsecchisce. È un tentativo di darsi per così dire a posteriori un passato da cui si vorrebbe derivare, in contrasto con quello da cui si deriva — sempre un tentativo pericoloso, perché è assai difficile trovare un limite nella negazione del passato, e perché le seconde nature sono generalmente più deboli delle prime. Troppo spesso ci si ferma alla conoscenza del bene senza farlo, perché si conosce anche il meglio, senza poterlo fare. Ma qua e là la vittoria arride lo stesso, e c’è anzi, per coloro che lottano, per coloro che si servono della storia critica per la vita, una notevoleconsolazione: quella cioè di sapere che anche tale prima natura è stata una volta, quando che sia, una seconda natura, e che ogni seconda natura che vinca diventa una prima natura.


Friedrich Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita (1874). Capitolo 2 e 3.

Simone Sala