Parerga e paralipomena Lettura di 22 minuti

Della fisiognomica

Che l'aspetto esteriore ci dia una immagine dell'essere interno e che il viso esprima l'intero essere dell'uomo e lo riveli è un presupposto, il cui apriorismo, e quindi certezza, si manifesta nell'avidità generale che si rivela in ogni occasione, quando si tratta di vedere un individuo che si sia distinto per qualche cosa, nel bene o nel male, o che abbia fornito un'opera straordinaria, o, se il vederlo è precluso, si cerca di sapere almeno da altri quale sia il suo aspetto; ecco la ragione, da un lato, dell'affluenza ai luoghi dove la sua presenza è presupposta e, dall'altro lato, gli sforzi dei giornali, soprattutto dei giornali inglesi, di descriverlo in modo minuzioso e somigliante; dopo un po' di tempo anche i pittori e gli incisori ce lo rappresentano in modo concreto e, infine, l'invenzione di Daguerre, che appunto viene apprezzata così altamente, viene a soddisfare quel desiderio nel modo più perfetto. Parimenti, nella vita comune, ognuno osserva con attenzione la fisionomia di ogni individuo che gli si presenta, cercando di riconoscere anticipatamente e in segreto, il suo essere morale e intellettuale dai tratti del viso. Tutto questo non avverrebbe, se, come asseriscono certe persone stolte, l'aspetto dell'uomo non avesse significato, poiché, come affermano, l'anima sarebbe una cosa e il corpo un'altra cosa, e starebbe all'anima, come l'abito sta al corpo stesso. Piuttosto ogni volto umano è un geroglifico, che, per la verità, si lascia decifrare, e l'alfabeto del quale ognuno porta in sé già pronto. Anzi, il viso di un essere umano, di regola, dice cose più interessanti di quelle che dice la sua bocca: poiché il viso è il compendio di tutto ciò che la bocca possa mai dire; esso infatti è il monogramma di ogni pensare e agire di tale essere umano. La bocca esprime soltanto pensieri dell'uomo, il viso, invece, esprime un pensiero della natura. Perciò ogni individuo merita di essere osservato con attenzione; anche se non ognuno merita che si parli con lui. — Se già ogni individuo, come unico pensiero della natura, è degno di essere osservato, lo è al massimo grado, quando si tratti di bellezza: poiché la bellezza è un concetto più alto e generale della natura; essa è il suo pensiero della specie. Perciò incatena il nostro sguardo con tanta forza. La bellezza è un pensiero fondamentale e principale della natura; mentre l'individuo è soltanto un pensiero secondario, un corollario.

[Tutti quanti partono tacitamente dal principio fondamentale, che ognuno sia come ci sembra a giudicarlo dal suo aspetto esterno; questo principio è effettivamente giusto; però la difficoltà sta nel saperlo adoperare, questa capacità è in parte innata, in parte dev'essere conquistata, mediante l'esperienza: ma nessuno riesca a portare questo sapere alla perfezione; perfino il più abile in questo campo commette ancora errori. Tuttavia, il viso non mentisce — checché ne dica Figaro — invece siamo noi che vi leggiamo ciò che non vi è]. A dir la verità, il decifrare il volto è una grande e difficile arte. I suoi principi non possono essere mai imparati in abstracto. La prima condizione per imparare è di afferrare l'individuo con sguardo puramente oggettivo; e ciò non è molto facile. Il geroglifico appare confuso e falsificato, appena viene mescolato con la minima traccia di antipatia o di simpatia o di apprensione o di speranza, oppure se vi si insinua anche il quesito di quale sia l'impressione che noi facciamo su di lui in quel momento; insomma, se nella nostra osservazione si inserisce qualche elemento soggettivo. Come soltanto colui che non capisce la lingua, riesce a sentirne il suono, poiché nel caso contrario il segno viene subito scacciato dalla dalla parola che lo evoca; parimenti, la fisionomia di un essere umano viene afferrata soltanto da colui che è ancora estraneo all'individuo in questione, vale a dire, che non si è abituato al suo viso vedendolo spesso o addirittura parlando con lui. Per conseguenza, si riesce a rigore ad avere un'impressione puramente oggettiva di un viso e con ciò la possibilità di decifrarlo, soltanto la prima volta che lo si vede. Allo stesso modo che gli odori ci eccitano soltanto al loro subentrare, e il gusto del vino, in verità, viene rilevato da noi soltanto al primo bicchiere, così anche i visi fanno sentire la loro completa impressione su di noi soltanto la prima volta. Perciò bisogna badare attentamente alla prima impressione: bisogna tenere il ricordo, anzi, quando si tratta di persone di una certa importanza per noi, bisogna conservarlo per iscritto; se, beninteso, si può aver fiducia nel proprio senso fisiognomico. La conoscenza posteriore, le relazioni personali con la persona in questione, riusciranno a cancellare quella prima impressione; ma in seguito essa sarà confermata.

Del resto non vogliamo nasconderci che ogni prima vista riesce il più delle volte estremamente sgradevole: — ma quanto poco, anche, valgono i più degli esseri umani! — Con l'eccezione dei visi belli, benevoli e intelligenti, dunque pochissimi e rarissimi — ogni nuovo viso, secondo il mio parare, nel maggior numero dei casi risveglierà in persone di fini sentimenti una sensazione affine allo spavento, poiché esso offre uno spettacolo sgradevole, in una nuova e sorprendente combinazione. In realtà ogni nuovo viso è, di regola, un triste spettacolo (a sorry sight). Vi sono perfino certi individui, sul viso dei quali è impressa una tale ingenua volgarità e una tale bassezza del modo di pensare, nonché una tale limitatezza bestiale dell'intelletto, che ci stupisce come mai simili individui abbiano il coraggio di uscire con un simile viso e non preferiscano portare una maschera. Infatti, vi sono visi, la cui sola vista ci fa sentire come se fossimo stati insudiciati. Perciò non bisogna dar torto a coloro ai quali una situazione privilegiata permette di vivere ritirati e protetti, in modo tale che riescono a sottrarsi completamente alla penosa sensazione di «vedere visi nuovi». — Per la spiegazione metafisica di questa cosa, occorre prendere in considerazione che l'individualità è proprio ciò di cui ciascuno dev'essere liberato ed emendato mediante l'esistenza stessa. Se, invece, vogliamo accontentarci della spiegazione psicologica, occorre chiedere a noi stessi, quali fisionomie si possano dunque supporre da coloro, nel cui animo, durante una lunga vita, rarissimamente è sorto qualcosa che non fossero pensieri meschini, bassi, miserabili, nonché desideri volgari, egotistici, invidiosi, cattivi e maligni. Ciascuno di questi ha conferito al viso la sua espressione, per tutta la durata della sua presenza: tutte queste tracce, a causa della frequente ripetizione, col tempo hanno lasciato profondi solchi e sono, come si dice, parecchio marcate. Perciò il maggior numero degli esseri umani, a prima vista, ci incute spavento, e soltanto a poco a poco ci si abitua al loro viso, vale a dire l'impressione che esso produce diventa meno intensa e non agisce più su di noi.

[Ma per l'appunto quel lento processo di formazione dell'espressione stabile del viso, mediante innumerevoli tensioni passeggere e caratteristiche dei tratti, è anche la ragione perché i visi intelligenti acquistano tale espressione solo gradualmente, e addirittura raggiungono la loro suprema espressione soltanto nella vecchiaia; mentre i ritratti della loro giovinezza ne mostrano soltanto le prime tracce].

Per contro l'accenno suddetto al primo spavento concorda con l'altra osservazione: che un viso produce soltanto la prima volta la sua giusta e completa impressione. Per la verità, per ottenerla puramente oggettiva e non falsificata, non dobbiamo avere nessun genere di relazioni con la persona in questione, anzi, se è possibile, non aver ancora parlato con essa. Ogni conversazione, infatti, in un certo senso, ci avvicina ad essa e introduce in un certo rapport, una relazione reciproca soggettiva, nella quale l'apprensione perde subito di oggettività, Siccome, inoltre, ognuno cerca di guadagnare per sé stima o amicizia, anche l'individuo che si sta osservando subito metterà in opera ogni genere di infingimento, che già ben conosce, dandosi a simulare e a lusingare con la sua mimica, cercando di corromperci in modo che noi, dopo un po', non vediamo più ciò che il primo sguardo ci aveva rivelato chiaramente. Quindi si usa asserire che «la maggior parte degli uomini guadagnano ad una conoscenza più vicina», invece si dovrebbe dire «riescono ad abbindolarci». Ma se poi capitano le brutte occasioni, di solito il giudizio del primo sguardo riceve la sua giustificazione e spesso la fa valere con scherno. Se invece la «conoscenza più vicina» si rivela subito ostile, non si dirà parimenti che la gente ci guadagni. Un'altra ragione di un preteso guadagno grazie ad una conoscenza più intima è che l'individuo, il cui aspetto ci ha messo in guardia a prima vista, appena abbiamo conversato con lui, non ci mostra più soltanto il proprio essere e carattere, ma altresì la propria cultura, vale a dire, non soltanto ciò che esso è realmente e secondo natura, ma anche ciò che ha assimilato dal patrimonio comune dell'umanità [tre quarti di ciò che l'individuo dice non appartiene a lui, ma è entrato in lui da fuori]: allora spesso ci meravigliamo di sentir parlare così umanamente un simile minotauro. Ma, quando dalla «conoscenza più vicina» si arriva a una ancor più stretta, «la bestialità» che ci fu rivelata dal suo viso «si manifesterà splendidamente». Chi dunque è dotato di un acuto senso della fisionomia, deve tenere in gran conto tutti i giudizi che questo senso ha dato prima della conoscenza più vicina e che perciò sono autentici. Poiché il viso di un individuo rivela proprio ciò che esso è; e se ci inganna la colpa non è sua, ma nostra. Le parole di un essere umano dicono invece soltanto ciò che egli pensa; più spesso soltanto ciò che ha imparato, oppure, magari, ciò che soltanto finge di pensare. A ciò si aggiunga anche il fatto che, quando parliamo con lui, oppure semplicemente sentiamo come parla con altre persone, facciamo astrazione dalla sua vera e propria fisionomia, mettendola da parte come un sostrato, come un puro dato, e badiamo soltanto all'elemento patognomonico, alla sua mimica nel discorrere, ma così egli riesca a farsi vedere dal lato buono.

Ma se Socrate a un giovane, che gli era stato presentato, perché ne esaminasse le capacità, disse: «Parla affinché io ti veda»; egli aveva ragione (ammesso che con la parola «vedere» non intendesse il semplice sentire), nel senso che soltanto mentre l'uomo sta parlando, i tratti del suo viso, in modo particolare gli occhi, si animano e i suoi mezzi e le sue capacità intellettuali danno la loro impronta alla mimica della sua faccia, sicché riusciamo a valutare provvisoriamente il grado e la capacità della sua intelligenza; e appunto questo era stato lo scopo di Socrate. Altrimenti però si può far valere contro questa affermazione, in primo luogo, che essa non si estende alle qualità morali dell'individuo, che giacciono nel più profondo e, in secondo luogo, che quanto guadagnamo objective, grazie alla mimica della faccia, col più chiaro svolgersi dei tratti del viso, lo perdiamo, viceversa, subjective, a causa della relazione personale che subentra fra noi e la persona che ci sta parlando e che esercita su di noi un lieve fascino, che non ci lascia imparziali, come si è già detto. Perciò, da questo ultimo punto di vista, sarebbe più giusto dire: «Non parlare, affinché io ti veda».

Infatti, al fine d'afferrare la vera e propria fisionomia di un individuo in modo puro e profondo, è necessario osservarlo, quando sta solo, lasciato a se stesso. Già ogni compagnia e ogni sua conversazione con un'altra persona gli conferiscono un riflesso estraneo, di solito a suo vantaggio, perché, mediante l'azione e la reazione, egli viene messo in attività e perciò elevato. Per contro, quando un individuo è solo e rimane abbandonato a se stesso navigando nel liquido dei propri pensieri e delle proprie sensazioni, — soltanto allora è se stesso in modo completo. In quel momento uno sguardo fisiognomico, profondamente penetrante, può afferrare l'intero suo essere in una volta sola, in linea generale. Poiché sul suo viso, per se stesso, è impresso il tono fondamentale di tutti i suoi pensieri e di tutte le sue aspirazioni, l'arrêt irrevocable di ciò che egli deve essere e che sente di essere pienamente soltanto quando è solo. Se non altro per questo, la fisiognomica è un mezzo essenziale per la conoscenza degli uomini; poiché la fisionomia, nel senso più stretto, è l'unico campo, nel quale i loro artifici simulatori non arrivano; quegli artifici, infatti, toccano solo l'elemento patognomonico, la mimica. Appunto perciò raccomando di considerare ogni persona, quando si trova sola, e abbandonata a se stessa, e prima di aver parlato con essa; in parte, perché soltanto allora si ha davanti a sé, pura e non mischiata con altri elementi, l'essenza fisiognomica, mentre durante la conversazione subentra immediatamente l'elemento patognomonico e l'individuo allora mette in opera le arti di simulazione che ha imparato; in parte perché ogni relazione personale, anche la più fuggevole, ci rende parziali e perciò intorbida soggettivamente il nostro giudizio.

Debbo ancora rilevare che, per la via, fisiognomica, tutto sommato ci riesce più facile scoprire le capacità intellettuali di un individuo che non il suo carattere morale. Le capacità intellettuali, invero, spiccano assai maggiormente all'esterno. Esse hanno la loro espressione non solamente nel viso e nella mimica, ma altresì nel modo di camminare, anzi in ogni mossa per quanto lieve. Forse si potrebbe distinguere un imbecille, uno stolto e un uomo di ingegno già da dietro. L'imbecille si distingue per la plumbea goffaggine di tutti i suoi movimenti; lo stolto porta impresa in ogni suo gesto la propria stoltezza˛ lo stesso fanno intelletto e riflessione. Su ciò è basata l'osservazione di La Bruyère: «Il n'y a rien de si délié, de si simple et de si imperceptible, où il n'y entrent des manières qui nous décèlent: un sot ni n'entre, ni ne sort, ni ne s'assied, ni ne se lève, ni ne se tait, ni n'est sur ses jambes, comme un homme d'espirit»1. Con ciò si spiega, sia detto di passaggio, quell’instinct sùr et prompt, che, secondo Helvétius, hanno le teste comuni per riconoscere e fuggire le persone di spirito. La cosa stessa è basata anzitutto sul fatto che quanto più il cervello è grande e sviluppato, e quanto più sono sottili in proporzione con esso il midollo spinale e i nervi, tanto più è grande non soltanto l’intelligenza, ma, con essa, anche la mobilità e l’elasticità di tutte le membra; perché in tal caso queste ultime vengono dominate dal cervello in modo più diretto e deciso, e per conseguenza tutto viene tirato di più su un solo filo, e con ciò in ogni movimento si esprime precisamente la sua intenzione. L’intera cosa è però analoga, anzi è dovuta al fatto che, quanto più l’animale si trova in alto sulla scala degli esseri, tanto più facilmente può essere ucciso per una ferita in un solo punto. Prendiamo, ad esempio, la specie dei batraci: come sono goffi, pigri e lenti in tutti i loro movimenti, così sono anche inintelligenti e nello stesso tempo estremamente vitali; tutto questo si spiega perché essi, dotati di un cervello poco sviluppato, hanno il midollo spinale e i nervi molto grossi. [Tutto sommato, l’andatura ed i movimenti delle braccia sono principalmente una funzione cerebrale, poiché gli arti esterni, mediante i nervi della spina dorsale, ricevono il loro movimento ed ogni sua modificazione sia pure minima dal cervello; per la stessa ragione i movimenti volontari ci stancano; la suddetta stanchezza, come anche il dolore, ha la sua sede nel cervello e non, come sembra, negli arti, perciò la stanchezza favorisce il sonno; invece, i movimenti involontari della vita organica, del cuore, dei polmoni, eccetera, continuano senza tregua. Siccome, ora, allo stesso cervello sono dovuti sia il pensare sia il governo degli arti, il carattere della sua attività si manifesta nell’uno e nell’altro, secondo la natura dell’individuo: individui stupidi si muovono come burattini; i tipi intelligenti ogni articolazione li rivela]. — Tuttavia, assai meglio che dai gesti e dai movimenti, le qualità spirituali risultano dal viso, dalla forma e dall’ampiezza della fronte, dalla tensione e mobilità dei tratti del viso e soprattutto dall’occhio — dal piccolo, torbido, inespressivo occhio porcino, attraverso tutti i gradini intermedi, fino all’occhio luminoso e lampeggiante del genio. — [Lo sguardo dell’intelligenza, perfino di quella più fine, si differenzia dallo sguardo della genialità per l’impronta che gli conferisce il fatto di essere al servizio della volontà, servizio dal quale il genio è esente]. [Nelle bestie è chiaramente visibile che il loro intelletto svolge la sua attività esclusivamente al servizio della loro volontà: nella maggioranza degli uomini, di solito, le cose non stanno molto diversamente. È ciò che accade di vedere comunemente anche negli uomini, anzi certuni si vede addirittura che il loro intelletto non ha mai avuto altra attività se non quella di rivolgersi ai fini meschini della vita e ai mezzi relativi, che sono spesso così bassi e indecorosi. Colui che possiede una decisa eccedenza d'intelletto, oltre la misura necessaria al servizio della volontà, eccedenza che si sfoga in un'attività del tutto libera, non suscitata dalla volontà, né riguardante i fini della volontà, il cui risultato sarà un'apprensione puramente oggettiva del mondo e delle cose, — un uomo simile è un genio, e questo fatto si imprime nel suo volto: ciò avviene però, in grado minore, anche per ogni eccedenza di intelletto oltre la detta, modesta misura].

Quindi è del tutto credibile l’aneddoto, che Squarzafichi racconta nella sua vita del Petrarca, sulla scorta del contemporaneo di questi, Giuseppe Brivio: una volta, alla corte dei Visconti, quando in mezzo a molti altri signori e nobili si trovava anche il Petrarca, Galeazzo Visconti disse a suo figlio, ancora bambino, che in seguito divenne primo duca di Milano, di trovare fra i presenti l'uomo più saggio: il ragazzo li guardò tutti quanti per qualche tempo: quindi afferrò la mano del Petrarca e condusse il poeta dal padre, fra la grande meraviglia di tutti i presenti. La natura, infatti, imprime in modo così evidente nei privilegiati dell’umanità il sigillo della loro dignità, che perfino un bambino li riconosce. Perciò vorrei consigliare ai miei perspicaci compatrioti che, se ancora una volta hanno voglia di strombazzare per trent’anni la fama di una testa del tutto comune, come si trattasse invece di un grande spirito, non scelgano una fisionomia da birraio, come l’ebbe Hegel, sul cui viso la natura, con la sua calligrafia più chiara aveva scritto ciò che quasi sempre scrive: «uomo volgare».

Diversamente però stanno le cose quando si tratta non già dell’indole intellettuale, ma del carattere morale dell’individuo: quest’ultimo è assai più difficile a essere riconosciuto dal punto di vista fisiognomico; poiché, in quanto elemento metafisico, si trova senza paragone più in profondità, e benché sia connesso con la corporizzazione, cioè con l’organismo, tuttavia non lo è in modo così diretto, e poi non con una sua parte definita, un suo sistema, come l’intelletto. A ciò occorre aggiungere il fatto che, mentre ognuno mostra apertamente il proprio intelletto, dato che, in linea generale, ognuno ne è soddisfatto e cerca di farlo vedere ad ogni occasione, il lato morale di rado viene messo in luce apertamente, anzi di solito viene celato con premeditazione; il lungo esercizio conferisce all’individuo una grande maestria in questo campo. Tuttavia, come abbiamo spiegato sopra, i brutti pensieri e i desideri spregevoli lasciano le loro tracce a poco a poco sul viso, soprattutto per quel che riguarda l’occhio. Di conseguenza, il fatto è che noi, giudicando dal punto di vista fisiognomico, possiamo facilmente garantire per un individuo che egli non creerà mai un’opera immortale, ma non possiamo garantire, altresì, che non commetterà mai un grande crimine.

Footnotes

  1. «Ottusità, insensibilità, e lentezza di spirito».

Arthur Schopenhauer, Parerga e paralipomena (1851). Capitolo 29 — Della fisiognomica.

Simone Sala